Una cosa che ho sempre adorato è sonnecchiare come un gatto in una stanza in cui altre persone sono in attività. Lo faccio quando posso, fin da piccina, e confesso che se è sera non resisto alla tentazione di farmi trasportare nel letto come un peso morto (nel caso in cui i presenti fossero fisicamente impossibilitati a farlo, anche essere delicatamente coperta e lasciata lì non è da buttar via). Dal momento in cui gli occhi si chiudono si apre ai sensi un mondo tutto da indovinare. Lo spazio intorno prende forme via via diverse, non più limitato dai muri ma ritagliato attorno alle emozioni inespresse di chi ci si sta muovendo: si contrae, si dilata, si increspa di onde o si sospende come un respiro trattenuto. I movimenti e i gesti sono disegnati dai rumori che producono e ogni cosa docilmente rivela il suo profumo. Qualunque discorso rimbomba in un esilarante abisso di ambiguità. La vita che ticchetta mi abbraccia, mi riguarda e non mi riguarda, mi contiene senza aspettative, mi riconosce il diritto a esistere dentro una culla di neonato o una bolla di sapone per un tempo di cui non sento i limiti.
Anche per questo forse mi piace dormire in posti sempre diversi, nel luogo della casa che sembra abbia qualcosa da dirmi. Pacatamente o con mille fremiti qualcosa intorno comunica in quel misterioso linguaggio comprensibile solo ai dormienti. Al risveglio, mi piace pensare che la posizione in cui mi trovo sia la mia ultima battuta in quel dialogo cosmico.