Quella corrente nella pancia che riflette un dolore, ormai non ha bisogno di presentazioni. Rappresenta il prototipo della sofferenza mentale ma allo stesso tempo è come una sorella, qualcuno di così prossimo, intimo, da sempre conosciuto e uguale a se stesso attraverso gli anni che al dolore quasi si unisce una sfumatura di piacere, come quello che si prova riconoscendo alle prime note una canzone che ti è cara, anche se sai quasi per certo che ti farà piangere.

Penso e ripenso

Una volta venduta la casa, penso e ripenso, dove mi piacerebbe trascorrere i prossimi anni della mia vita? Ma ancor prima di formulare ipotetici toponimi (vi siete divertiti a pronunciarlo?), mi chiedo: che faccio, mi consegno tra le braccia della natura o resto a vivere in (una) città? Dopo aver passato tre mesi del recente passato in un contesto naturale quanto mai potente, mi pare ora quasi impossibile prescindere dal contatto con la natura e da quel sentirsi vivi momento per momento che in città è una faticosa conquista. Sarà che mi riesce più agevole dialogare con la luna o con la montagna piuttosto che trarre forza dalla presenza e dal contributo energetico di altri esseri umani, pur così vicini e certamente più simili a me di quanto possa esserlo un satellite distante centinaia di migliaia di chilometri. Sarà che il pulsare e il respiro della natura ti permettono di agganciarti al loro ritmo senza chiedere nulla, esattamente il tipo di vibrante indifferenza che mi piacerebbe poter ricevere anche dai miei simili. L’arte del vivere in città richiede invece l’immersione in un flusso sì pulsante ma caotico e facile allo scontro, dove bisogna imparare a tuffarsi, a restare a galla, e infine se possibile a nuotare, cioè far dialogare la propria energia con una somma di altre che a volte si configurano decisamente come una massa ondosa. Bisogna a poco a poco ma prima possibile imparare a riconoscere gli umori collettivi e i loro movimenti. Un premio di qualche genere andrebbe conferito a colui che ha inaugurato l’uso del termine ‘serpeggiare’ per descrivere il modo in cui si diffondono umori ed emozioni in un gruppo umano fisicamente compresente, ad esempio sul tram, l’ambiente ad alta concentrazione di umanità che frequento di più in assoluto. In effetti, adesso che ci penso, forse le mie resistenze ad allontanarmi si devono anche al dispiacere di non poter esercitare o addirittura perdere la perizia acquisita in tanti anni di allenamento, nonché la possibilità di usarla per cogliere alcuni gioielli che solo la città sa far risplendere. Succede quando la superficie anonima della massa si crepa e lascia fuoruscire scintille di storie individuali pronte per essere colte, vestite e pettinate dall’immaginazione. Penso a qualche giorno fa: il tram è pieno, anche se non stracolmo come accade in certi orari. Davanti a me che sono in piedi c’è seduta una signora distinta che, a giudicare dall’aspetto, sta decorosamente percorrendo la strada che porta dai 75 agli 80; sul sedile davanti a lei c’è invece un ragazzo che sfoggia un abbigliamento a dominante nera diciamo pure ribelle alle convenzioni, nonché un lungo ciuffo di capelli ossigenati che gli ricade sul viso come una dichiarazione di guerra. Lei lo guarda insistentemente, poi si intuisce che non ce la fa più a trattenersi e sento che gli dice: “Scusa eh, ma sono anni che cerco di ottenere proprio quel biondo!” e lui si lancia in una tanto accorata quanto accurata descrizione del procedimento che a quanto pare consiste nell’uso di un normale (?) biondo 92 seguito, e questo è il trucco, da una seconda mano di biondo 5 o qualcosa del genere. Un attimo dopo sono di nuovo ognuno per conto suo, in silenzio, a guardare davanti a sé. Ma il ragazzo appare come rinato e pacificato, grato per questa occasione di condivisione che la sorte gli ha regalato; e la signora sembra estasiata da questa nuova capillare prospettiva che si è aperta sull’orizzonte dei suoi desideri.

Primo Maggio

L’aria è dolce e consolante, in questa serata romana altrove affollata ma qui straordinariamente silenziosa. Il passaggio sporadico di macchine due strade più in là non provoca sussulti, al massimo ricorda una raffica di vento, tesa ma poco convinta. Ogni altra forma di vita non umana tace o si esprime a un volume troppo basso per guadagnarsi la mia attenzione. Nonostante la stanchezza quasi assoluta  che le ultime 16 ore mi hanno procurato, noto con gratitudine che da  quando sono uscita due boccioli di orchidea hanno aperto i loro candidi occhi  sulla mia stanza e ora che ci sono dentro anch’io, mi guardano un po’ a capo chino come fossero imbarazzati dal trovarsi qui senza essere stati adeguatamente introdotti. Ma ciò che mi fa piangere e apre in questa serata un candido delicato bocciolo di gratitudine è che esista qualcuno che mi scrive “mi manchi tanto so che verrai ti aspetterò”. Sono parole così immediatamente belle da farti sentire che non c’è niente da temere, parole che trasformano la paura in un muro bianco offerto alle bombolette creative dell’amore, nella sua forma più libera.

Addio e grazie per tutto il pesce (un post con le note, che non suona)

Addio e grazie per tutto il pesce… Oltre ad essere perfetto come mio epitaffio, il messaggio lasciato dai delfini all’abbandono della Terra (1) starebbe bene sulla porta di quella che è stata la mia casa negli ultimi 8 anni, se qualcuno degli aspiranti compratori che in questi giorni viene in visita dovesse decidersi per il sì.
Ma dove si trova questa casa? Giusta osservazione. Ecco una serie di informazioni che andrebbero assolutamente inserite nell’inserzione: la casa è un appartamento a forma di mezza nave (2), all’ultimo piano di un palazzo di città cresciuto su una via qualunque: mezzo chilometro di decisa pendenza con marciapiedi variamente sconnessi. Volendosi procurare del cibo, la via ospita un alimentari e un fruttivendolo mentre per ogni altro negozio mediamente rappresentato in una via di città -bar, tabaccai, cartolerie, abbigliamento, scarpe, ferramenta- dovrete rivolgervi alle vie limitrofe perché qui si vola alto. Una passeggiata di soli 500 metri e vi sarà possibile procurarvi un costume per qualsiasi danza nella quale siate intenzionati a cimentarvi ma anche articoli per maghi, clown e giocolieri o aspiranti tali, nel caso sentiste bruciare dentro di voi l’ispirazione alla prestidigitazione, all’illusionismo o alle piste di un circo… Non siete inclini a manifestazioni così plateali della vostra personalità? Niente paura, nella stessa via c’è una scuola di musica dove si impara a cantare e a suonare qualunque strumento, ma anche una scuola di pittura (il che è davvero una pregiata rarità). La vostra indole vi spinge ad esplorare piuttosto forme di spiritualità? Ecco per voi un’accademia di yoga e meditazione e indipendentemente (almeno credo), a pochi metri, una “cellula di resistenza creativa” incentrata sul vino, con particolare attenzione ai vini da meditazione! Considerando la distribuzione media degli esercizi commerciali nella zona (e non solo), la via in questione rivela una vera e propria vocazione che chi aspira ad abitarvi deve tenere in debito conto.
Un’altra inspiegabile vocazione è di natura estetica: in soli 500 metri troverete un centro estetico e ben sei parrucchieri!
Gentili aspiranti acquirenti, vi sarà ormai chiaro che in qualunque stato arriviate ad abitare qui, potreste uscirne artisticamente coltivati e ben pettinati, un binomio a pensarci assai raro.
Ma c’è ancora un negozio che merita una menzione speciale, benché non abbia più fini commerciali: un ex vini oli e liquori all’antica la cui attività è cessata da più di un anno ma che è rimasto aperto come locale, completamente vuoto di merci ma ancora abitato in orario di lavoro dal negoziante che lo ha gestito per tutta la vita. Di età indecifrabile, l’uomo ha tenuto chiuso per un paio di giorni (probabilmente vissuti in preda a un insopportabile senso di solitudine e inutilità), poi ha tolto il cartello di cessata attività e ha ricominciato a recarsi ogni giorno al negozio, dove si siede a un tavolo dietro le vetrinette a leggere il giornale o semplicemente guarda fuori e saluta i passanti con un sorriso soddisfatto. Quest’uomo è la prova provata che adottare un punto di vista piuttosto che un altro può cambiarvi la vita. Non è impagabile averne un promemoria sotto casa?
Infine, non si passi sotto silenzio la presenza, nel palazzo di fronte, di un misterioso fenomeno… Di primo mattino, intorno alle sette, ad ogni rumore di finestre che si aprono nel nostro palazzo, cioè ad ogni minimo sentore di pubblico, c’è un signore attempato che fa un passo avanti dalla penombra dietro la sua portafinestra ed esce nudo sul balcone con aria trionfante. E sorride, sorride per tutto il tempo in cui viene guardato. All’inizio ho nutrito sentimenti controversi nei confronti del fenomeno: da una parte mi faceva sorridere quel tanto di ingenua spavalderia che pareva trasparire dal gesto, dall’altra non mi garbava la capricciosa imposizione della sua immagine nel panorama. E per tutto il tempo ho continuato a chiedermi come interpretare questo gesto, nonché a quale sensazione potesse corrispondere il fatto di essere visti nudi ogni mattina dai vicini di casa… Una provocazione? Una compulsione? Un divertimento? Non lo saprò mai, e a dire il vero ho smesso di chiedermelo da quando mi è balenata un’idea che mi piace molto: è come se ogni mattina quell’uomo rappresentasse al mondo la sua nascita, dalla casa-utero materno al balcone dove si espone a chiunque sia disposto a riconoscerne l’esistenza, ricevendo in cambio un sorriso entusiasta.

(1) Si veda il 4° volume della trilogia in 5 parti di Douglas Adams “Guida galattica per autostoppisti”
(2) Cfr. https://kudraincorporated.wordpress.com/2004/08/03/2679468

Domenica

Roma, appunti da una domenica ultramalinconica e solitaria, perennemente in odore di pioggia.

Alla fine l’umidità estrema non si è fatta pioggia né l’estrema tristezza pianto. Me ne sto qui raggomitolata e fiduciosa che lo spazio tanto angusto in cui sto passando possa aprirsi presto. Ad esempio mi conforta il fatto di riuscire a immaginare chiaramente come potrei vivere diversamente questo stesso momento, a parità di condizioni; riesco cioè a vedere il ritratto di me stessa felice qui e ora e questo è molto, benché sia solo una sagoma nella quale non riesco a entrare (forse è anche perché la visualizzo una taglia meno di me, ma questi sono particolari insignificanti)…
Facciamo così, mi sento in vena di esperimenti: se questa sagoma di donna dalle straripanti energie, se questa divinità dolce e muscolosa momentaneamente in vesti umane, annoiata dal lento corso della domenica, mettesse le mani sulla mia tastiera e nel mio blog, che cosa racconterebbe di un presente che a me pare così pieno di pesi e vincoli e così poco (de)scrivibile?

Direbbe forse della varia umanità che si è avvicendata nelle visite alla casa in vendita, nella quale ancora (e finché vendita non ci separi) sto abitando. Da osservatrice, una parte di me aveva visioni di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, mentre l’altra pensava piuttosto a un improvvisato Feydeau, con tutte quelle entrate e uscite di scena e aperture e chiusure di porte, finestre e ante, incontri e riscontri, domande discrete e indiscrete. Negli occhi degli aspiranti compratori si leggeva la cifra (eh beh, anche la cifra in quel senso ma io intendevo) la cifra della loro aspirazione, la sfumatura espressa nel desiderare, nell’immaginare se stessi e la loro vita di oggi proiettata tra quelle mura. La cosa più naturale sarebbe stata invitarli a sedersi e a raccontare come si sentivano, quanto pesava quel desiderio nelle loro tasche, che cosa riuscivano a percepire dell’energia lasciata da quasi otto intensi anni di vita, per poi raccontare magari a mia volta di ciò che mi stava spingendo lontano. Avrei voluto invitarli a trasferirsi a turno per provare l’effetto che fa svegliarsi in questa casa e in questa casa addormentarsi, conoscere i suoni, la luce, gli odori e il battito sottile delle mura…

Apprendo con sollievo che la fanciulla felice attualmente scrivente ed io ci somigliano in un tratto fondamentale: quando l’empatia non trova sbocchi nelle situazioni reali, anche lei si lascia andare a disegnare con la fantasia altri mondi possibili, su piani dove gli ascensori non si fermano mai (tranne che nei romanzi di Murakami Haruki)   -continua-

Primavera

Roma, mercoledì notte, secondo giorno di primavera.

Il rigido compromesso luminoso stabilito con la grande città non concede alla vista che poche isolate stelle, e anche la luna è in libera uscita. Cerco invano ogni genere di presenza dentro il velluto grigio del cielo, desiderosa di ricongiungermi alle forze naturali che hanno propiziato i grandi cambiamenti recentemente imposti alla mia vita. Cerco soprattutto la luna che, non finirò mai di stupirmene, ha ascoltato e suggerito e dato risposte, burbera ma fattiva, come un immenso specchio per i miei imprevedibili desideri. E ora che li vivo esauditi, i desideri dapprima osservati attraverso la luna, proiettano un’immagine intangibile ed eterna di innamorati da film muto. Eppure, eppure in più l’età mi regala l’esperienza del tutto inedita di un doppio sguardo sulle cose, come l’unione di un lussuoso abbandono con una precisa consapevolezza, non ansiogena, di ciò che sta accadendo e delle sue ramificazioni e potenziali ripercussioni positive, negative e neutre. Mi sento una specie di principessa che osserva, dalla collina, un lussureggiante giardino segreto della verità.

Ricominciare

Se non è questo il momento buono per ricominciare a scrivere allora tanto valeva lasciare questo relitto di blog ad inabissarsi con splinder. O tanto valeva lasciarlo dormire cent’anni come la bella nel bosco.
Invece no.
Oggi, 5 marzo 2012, inizio una nuova vita. Ho ancora le mani sporche di fuliggine e alle mie spalle fumano le braci di un falò dove ho appena bruciato avanzi di futuro. Mi era già capitato di pensare e scrivere in passato del futuro inevaso, quando per una banale caduta mi ritrovai fratturati non solo tibia e perone ma anche tutti i miei programmi per il pomeriggio, già ampiamente assaporati e passati al vaglio della fantasia. Quanti anni è lungo il tappeto di false certezze che la nostra mente srotola nel futuro? Quante sono le cose che diamo per scontato continueranno sempre uguali, con noi volenti o nolenti, solo per la pigrizia di non immaginarle diverse? Per quanti anni una principessa può rimanere addormentata nel bosco? E soprattutto quali sogni popolano il sonno della principessa? I miei sono stati sogni contrastanti: sognavo che avrei trovato trionfante la strada del risveglio, attraverso le nebbie, oppure sognavo sconfitta di trasformare la rassegnazione in un cuscino comodo e funzionale a un sonno eventualmente eterno tra coltri nebbiose ma consolanti. Come accade in tutte le favole che si rispettino, per quanto la principessa abbia strenuamente tentato di salvarsi da sola, è stato il bacio di un principe a disegnare la leggiadra crepa che ha segnato il discrimine tra prima e dopo, fra il sonno più o meno rassegnato e la veglia più o meno estatica dell’innamorata. Ricomincio da oggi, riprendo il cammino con uno zaino vuoto per accogliere la novità ma attrezzato di nuove consapevolezze. Riprendo con una manciata di parole per chi abbia voglia di leggermi, sgocciolanti di amore e gratitudine.

Secondo giorno di sole…

Secondo giorno di sole in questa stagione delle piogge. I pensieri si infrangono contro la sontuosa imbottitura di piumoso silenzio della domenica, sprimacciata di tanto in tanto dalle campane della chiesa. I segnali sono gli stessi di sempre ma parlano una lingua leggermente diversa… Ora che i miei genitori si sono (contronaturalmente!) trasferiti lontano, ora che ho smesso di lavorare, la tela del mio tempo si è dispiegata in uno strano paesaggio dai confini ancora inesplorati. Esistono momenti di vuoto, in cui devo ricordare a me stessa che il nulla può anche essere percepito come neutralità e l’indecisione come apertura. Ed esistono momenti di pieno, in cui contemplo le conseguenze spontanee di questi cambiamenti: a una visione ristretta e fugace della mia vita, colta ogni giorno dal finestrino della routine, si è sostituita l’infinita profondità della Storia. Il futuro, senza il ritmo dell’ansia, si è ridotto ad una pacifica linea retta della quale non vedo la fine ma in fondo non me ne importa; il passato invece si è aperto come la corolla di un fiore di straordinaria bellezza. Ne deduco che la mia personale concezione del tempo, nascosta in chissà quale luna park neuronale, deve essere a forma di imbuto e ultimamente l’imbuto si è capovolto: la parte stretta e diritta è ora rivolta verso il futuro mentre quella allargata si apre rivelando del passato una miriade di connessioni. Così oggi, di fronte al piccolo cambiamento dell’ora legale, non è sorta in me alcuna considerazione pratica su orari e sveglie ma piuttosto è riaffiorato un delizioso frammento di quando ero convinta che toccasse al mio papà, durante la notte, andare a rimettere gli orologi di tutte le banche di Roma.

Tornata dal viaggio

La nostra condizione di mortali non fa che filtrare attraverso qualunque pertugio lasciato sbadatamente aperto nelle nostre multiformi difese. Penetra come gas o come musica da ogni innocuo buco di serratura così che ogni cambiamento, abbandono, allontanamento, voltare di spalle, chiusura di porta, appassire di fiore, ogni evento apparentemente irreversibile ha in sé il potere di ricordarci la morte. L’esistenza del caso estende il fenomeno anche all’ambito del reversibile o sostituibile. Qualcosa di liquido e freddo e amaro si sente talvolta colare lento nella coscienza ad un semplice gesto: chiudere la porta di casa e partire, constatare il deterioramento del tuo vestito preferito o in strada, cercare di attirare l’attenzione di un amico che però non riesce a vederti né a sentirti. A qualunque livello riesca a insinuarsi il fatale promemoria dà dolore, angoscia e smarrimento, percepiti più o meno intensamente a seconda dell’imbottitura che abbiamo predisposto per attutirne, ammortizzarne (eccola ancora rispuntare dalle parole) l’impatto. Impossibile fare a meno dei dispositivi di protezione (fa troppo male), anche con la consapevolezza che stiamo togliendo qualcosa alla vita, in termini di forza e bellezza, per sacrificarla al teatrino dell’eternità. Togliamo ai poveri per dare ai ricchi. Accettare tutto ciò e imparare, dove si può, a sfoltire l’imbottitura, è una questione di esercizio, un procedere lento ma determinato, una danza di machete in una jungla di illusioni. Viaggiare è in questo senso il mio esercizio preferito. Il viaggio, come la vita stessa, non è per sempre. All’altrove non è possibile strappare nulla di materiale che possa essere portato a casa in valigia. Ogni emozione va consumata sul posto ma i segni che lascia sono semi per future scoperte. In viaggio riesce il miracolo quasi sempre negato alla vita quotidiana: vivere assorbendo con curiosità e stupore ciò che mi circonda senza essere turbata e indotta a proteggermi dalla consapevolezza di dover tornare. Perciò mi trovo oggi a pensare dolcemente alla morte, in questa meravigliosa azzurra giornata romana di sole, come a una casa calda e accogliente dove un giorno tornerò per ritrovare qualcosa di caro che le luci forti della vita in corso, sfolgoranti da 45 anni, hanno oscurato nella memoria.

Il calendario mi dice…

Il calendario mi dice che domani si parte. Tra le file composte dei giorni, la malìa del 9 si è fatta di giorno in giorno più potente, risucchiando verso di sé attenzione, pensieri e sogni. I due emisferi dello stravagante organo a forma di mezza noce che alloggiamo nella testa continuano a sgomitare per arrivare primi alla succulenta mensa del prossimo futuro e fanno a gara per indovinare il menu (uno lo dipinge e lo canta, l’altro lo prevede e lo calcola; in comune hanno solo la veemenza delle gomitate a spese del paziente spazio che li separa, non per niente denominato corpo calloso). Ne consegue che il mio grado di lucidità sta beatamente scivolando sotto lo zero, dove i numeri sono così dispettosi che si fanno negare.
In breve: non capisco più nulla dall’emozione.
Ancora più in breve: au revoir!

Un anno, si sa…

un anno, si sa, comincia in un modo e può finire in tutt’altro. il 2007 ha invece brillato per coerenza e rigore ed è con questa medaglia piantata bene in fondo al cuore (il suo) che l’ho congedato con tutti gli onori dovuti a un carceriere incorruttibile. non ricordo altre annate in cui sia stata così tenacemente rintanata, inchiodata, letargica, impaurita da ogni soffio. non voglio sapere perché la mia mente si sia data la pena di creare e arredare con cura una prigione in cui ambientare il mio quarantaquattresimo anno, né mi interessa in fondo capire che cosa abbia improvvisamente allentato la morsa, sfiancato la presa dei chiodi e ridotto la corona di spine a un centrino all’uncinetto. so che mio malgrado in quest’anno disparo ho imparato alla perfezione la resa strisciante, la strategia mimetica della sogliola che preserva il suo lato candido semplicemente non mostrandolo in pubblico.
ora sento che è finita e con uno spruzzo di inchiostro virtuale similchampagne, mi volto dall’altro lato e torno seppia, a mio amato rischio e benvenuto pericolo.

…a questo punto…

…a questo punto valeva la pena aspettare due manciate di giorni e sfruttare l’appiglio ufficiale dell’anniversario, tanto per farmi coraggio (perché quando si accumula, un giorno dopo l’altro, quasi un anno di non-scrittura, non si sente dentro la garanzia che l’impulso a rompere il digiuno non sia un banale episodio, al quale seguiranno altrettanti giorni di silenzio. e dunque ci si chiede se non sia meglio restare a contemplare la data in cui si è smesso, tanto tempo prima. eppure al blog manca un elemento fondamentale che renderebbe interessante tale pratica, cioè la trasformazione che caratterizza ogni forma di vita. un blog privato dei suoi periodici post non deperisce, non sbiadisce, non si ricopre di ragnatele, sulle parole non si formano affascinanti concrezioni saline. un blog resta semplicemente fermo a come lo si è lasciato e questo alla lunga innervosisce). oppure ecco, sarebbe stato meglio attendere il 18 gennaio per proclamare la legittimità di un diario con cadenza annuale, beninteso non un semplice annuario in cui si narrino i fatti salienti dell’annata appena trascorsa ma un qualcosa a metà strada tra l’inutile e il maniacale in cui si fermino i pensieri che passano nella radio sempre accesa della mente lo stesso giorno di ogni anno.
invece no, forse perché il 18 gennaio 2008 (salvo conguaglio) so già che sarò lontana lontana, lontana quanto è lontana cuba da roma. e i momenti di prepartenza sanno muovere energie altrimenti sopite, come l’improvvisa urgenza di lasciare segni della propria esistenza in vita nel luogo che si sta per lasciare, anche se si sa che non è per sempre. chissà. nel dubbio, mi avvalgo  della facoltà di non rispondere di me stessa.

Il 2007 ha portato…

Il 2007 ha portato per me i primi caracollanti passi senza stampelle, rotelle, tutori o fiancheggiatori: il corridoio e io da soli, come in un mezzogiorno di fuoco allo specchio, per tornare a fare quella complicatissima cosa ovvia che tutti fanno intorno a me in totale disinvoltura. Con l’immobilità alle spalle, mi rendo conto con stupore e gratitudine che in questi mesi la mia mente ha viaggiato accanto al corpo come un fedele cagnolino. Quando ero ferma, neanche un desiderio di movimento ha turbato la mia pace: la parte dinamica dei ricordi si è sbiadita, il futuro è scomparso dalla scena dei pensieri lasciando tutto lo spazio al presente, anche quando il dolore contribuiva a dilatarlo come una fuga di gas. E ora, tornata a camminare, mi sento come una bimba di un anno che goda con la stessa golosa intensità delle nuove scoperte motorie e dei momenti di culla.

Da un mese sono…

Da un mese sono seduta sul divano di casa mia, rivolta alla stessa finestra, testimone dei mutamenti della luce, mattino pomeriggio sera, del colore del cielo, dei bucati stesi ad asciugare sulla terrazza del palazzo di fronte, dei rumori che si muovono nell’aria, i soliti e gli inusuali. Non so dire come avrei trascorso questi lunghi giorni se un fatidico passo qualunque del mio piede destro non avesse incontrato sotto di sé la superficie più scivolosa del mondo. So per certo dove stavo andando e come avevo pregustato quel pomeriggio, immaginandolo così vividamente da averne ora un ricordo depositato nel reparto ‘memorie di un futuro inevaso’. Lo penso, questo bizzarro recesso mentale, come un paesaggio tibetano dove i frammenti di futuro inevaso sono bandiere da preghiera dai colori accesi appese a pali altissimi, che di tanto in tanto il vento della coscienza torna a leggere.

A volte sembra…

a volte sembra che le persone siano davvero convinte che un’emozione provata e reale sia sbagliata o inadeguata se non si conforma ad alcuna delle categorie citate nel dizionario, nell’enciclopedia o nella pubblica piazza. e a volte questo è fonte di grande sofferenza. eppure a me pare così evidente che i limiti sono nelle categorie e che a risultare inadeguati sono semmai il loro esiguo numero e la loro rigida organizzazione, se confrontati alla gamma di emozioni infinita che un essere umano può trovarsi a sperimentare. naturalmente sono consapevole che senza categorie condivise sarebbe impossibile comunicare e interagire socialmente, ma proprio per questo mi riservo la libertà di sospendere schemi e convenzioni quando la loro necessità viene meno. a che cosa mi serve, nella solitudine dorata e candelosa della mia stanzetta, forzare emozioni traboccanti e spavalde in minuscole scatolette? un altro essere umano mi provoca insolite palpitazioni e la netta sensazione di essere un fiore nell’atto di sbocciare, mi sento fresca e sontuosa come una peonia bianca al centro di un giardino, ho la mente sveglia e ubriaca di curiosità e stupore, e dovrei domandarmi se tutto ciò (e molto altro) entra più agevolmente nella striminzita scatola lessicale dell’amicizia o in quella appena più spaziosa dell’amore? non sarà forse il sentimentificio ad avere urgente bisogno di nuove forniture di parole?
non onorerei le innumerevoli forme di amore che provo chiamandole tutte allo stesso modo. non potrei esprimere la gratitudine per il bene che mi fanno se non coniassi dentro di me per ognuna di loro un’espressione nuova fiammante. e avrei perduto molto nella mia vita se non ci fossero state così tante parole fresche in viaggio da me agli altri: parole solo per me, parole da due a forma di bolla, parole da tre a vertigine triangolare e parole di famiglia a far vibrare sottili fili di sangue e consuetudine. tutta materia viva e pulsante, fuori ordinanza.

Se non esistesse il sonno…

se non esistesse il sonno, nell’esperienza umana, sarebbe molto più difficile concepire il risveglio, la consapevolezza del beato nulla che regna quando gli occhi si volgono verso l’interno e ogni interpretazione è sospesa. stanotte, mentre dormivo, uno squillo insistente ha aperto una breccia nel consueto innocuo tappeto sonoro urbano che è il nostro silenzio notturno. l’udito, comandante in seconda della combriccola dei sensi durante il sonno, ha tirato i fili di emergenza e il corpo si è mosso nella direzione giusta, senza però riacquistare le sue qualità ordinarie di peso e consistenza. era come fuso con l’aria della notte, fatto di una stessa sostanza gelatinosa e fluida, molto più coesa dell’aria ma lontana dalla solidità. la notte opponeva al mio incedere una resistenza morbida, come un dialogo tra persone amate quando l’incanto scende dalla mente nei corpi e diventa impossibile discernere i gesti dalle parole. anche il viola del cielo, come ogni altra cosa, sembrava disposto a lasciarsi penetrare e modellare. che la notte fosse così, lo sapevo e non lo sapevo, avendola vissuta senza mai distinguere il prolungamento della veglia dall’interruzione del sonno. che nel sonno il mio corpo diventasse così è stata una scoperta, una scoperta che invano sto tentando di descrivere, poiché appartiene quasi interamente al reame del sogno, dove se anche esiste un dizionario non contiene la parola parola.

Torno alle mille luci…

torno alle mille luci del mondo dietro il monitor stralunata più che mai, tanto che confondo l’andare col venire, la fine con l’inizio e l’avanti con l’indietro. il cuore si è conquistato più spazio nel corpo, terreno fertile di pieni e di vuoti. quanto mi sono cari, questi sorprendenti delicati momenti del ritorno, nei quali sento così chiaramente le corde della mia connessione con la vita che vibrano, formando accordi perfetti composti di vecchio e nuovo, e tirano in direzioni diverse, contemporaneamente…

Di passaggio…

Di passaggio, dopo una settimana trascorsa in una culla tra le montagne, sconnessa dal mondo ma circondata da cose solide e antiche, che parlavano un linguaggio che non ricordo di aver appreso, eppure sapeva fondersi con quanto ho vissuto e ricomporsi in vividi frammenti di memoria.
Come sempre accade nei miei ritorni a casa, ho trovato ovunque sagome di me stessa in polverosa attesa, esoscheletri pronti per essere nuovamente abitati e pilotati dalla forza informativa dell’abitudine. Sarà perché domani sarò di nuovo lontana, o forse chissà, ma stavolta mi sono limitata a osservarli, come reperti organici buoni per nutrire l’oblio. Nel loro linguaggio posturale parlavano di incertezza e rinuncia, di apnea prolungata, di una sorta di comico panico al rallentatore che ha silenziosamente minato qua e là la mia morbida capacità di stare al mondo come un cucciolo di tigrrre. Rivedo la parata di mascherine della paura nel grottesco luna park situato alla bocca dello stomaco, rappresentare la stessa pantomima fingendola sempre diversa, risento i richiami dell’imbonitore al gioco delle tre carte, dove astutamente si confondono anche all’occhio più attento i "non posso", i "non voglio" e i "non riesco". Per tutto il tempo in cui ci ho vissuto dentro mi sembrava realtà, una periferia malfamata della realtà ma pur sempre realtà, dove le cose sono quello che dicono di essere. Eppure…qualche notte fa, passeggiando al chiarore della luna piena, ho incontrato sulla mia strada un gruppo di cinghiali e la voce Paura si è istantaneamente aggiornata cacciando fuori gli intrusi. Via i falsi sinonimi e via anche i falsi contrari perché, senza quella paura totalizzante, dove avrei trovato il coraggio?
Grazie dunque ai cinghiali per aver aperto una spaziosa crepa nello strisciante malessere di ieri. Mi incammino al di là. Ci si legge tra una decina di giorni.

Amplesso solare


le serate si assomigliano tutte, in questi giorni sciropposi di caldo. nell’eterno gioco di passioni elementari l’aria è tornata ad amoreggiare col fuoco e non c’è che aspettare che la Terra volga lo sguardo per lasciarci percepire le promesse sussurrate con cui l’acqua scende clandestina a consolare la terra. non c’è che assistere con estatici sbuffi e attendere il lento rivolgimento, magari viaggiando in terre più fredde con google earth, a cavallo di un satellite virtuale. poco fa, planando tra siberia e mongolia, ho incontrato questo (ri)tratto di costa che veglia sul lago di Khövsgöl-nuur

khovsgol_nuur

nonché questo affascinante allevamento di occhi tentacolati.

occhi

Vien l’autunno…

Vien l’autunno sospirando… non c’è quaderno di apertura dei primi anni delle elementari che non lo avesse in esergo insieme alla cornicetta con i tralci di vite a incorniciare nome cognome classe materia. A passi lunghi e inesorabili saliva poi alla ribalta della prima pagina una trama di rami contorti e rinsecchiti, il sacrificio necessario dell’inverno che infestava i dettati di candidi manti di neve e scoppiettanti focolari assolutamente introvabili in città, che ci toccava disegnare copiando illustrazioni di fiabe nordiche. Non così la primavera: la primavera tracimava molto oltre le pagine di quaderno e il ripetitivo tono trionfale e rassicurante del libro di lettura. La primavera era vera ed era dovunque, filtrava da ogni crepa di asfalto, accecava di colori vividi, disordinava e ingravidava di frutti selvatici la strada diritta e alberata che portava a scuola. La primavera era potente, capace di alterare gli equilibri stagnanti di ogni altro tempo dell’anno. Non solo decretava la fine della scuola e di ogni routine ma soprattutto conosceva il segreto per stemperare l’autorità fino a renderla innocua. Il suo trucco era semplice e irresistibile: scoprire le braccia. Qualunque minaccia se proveniente da essere umano a maniche corte non faceva più paura, perdeva mordente e credibilità. Così la primavera ridimensionava il preside rombo di tuono, l’insinuante dottore con la faccia e il nome da pesce, le ire funeste della maestra, il fischio senza appello del vigile. Persino i più loschi figuri del palazzo, che a incrociarli nell’androne evocavano agguati e sparatorie, acquisivano lineamenti inclini alla clemenza. Le braccia nude erano disarmanti e appiattivano i picchi di potere e le differenze di genere e classe. Spuntavano dai vestiti eleganti come dalle vestaglie da casa a fiorellini ad evocare abbracci, feste in famiglia, pasta fatta in casa, sughi della domenica, divani, prime comunioni e piccoli drammi familiari. Le braccia esponevano debolezza e umanità. Con le spalline e le imbottiture sparivano spalle larghe e portamenti austeri per fare posto a sudori, occhi liquidi, pelle e peluria, cicatrici da interpretare, morbidezze da mordere (come resistere alla tentazione di mordersi le braccia?). Sarà che il caldo induce nel corpo umano reazioni del tutto simili a quelle generate dalle emozioni ma per me rappresentava la stagione della riscossa dove a nessuno, proprio a nessuno, era concesso nascondere la propria vulnerabilità.

Certo, pensavo camminando camminando…

certo, pensavo camminando camminando in questa città, non è facile ricordare in ogni momento quanto siano determinanti le condizioni che ci circondano, soprattutto quelle che ci accompagnano da sempre. mi guardo attorno e vedo cose a cui sono abituata dalla nascita ma non sono cosciente di quanto potrebbero essere diverse “le cose a cui sono abituata dalla nascita”. io sono nata in città, cresciuta in città e a questo punto almeno in una certa percentuale sono fatta di città, una grande città dove si vedono soprattutto esseri umani e loro manufatti, in diversi possibili stati di decomposizione. vivere qui per me significa essere costantemente immersa in una bolla di energia che comprende e rimescola gli umori di tutti. per non esserne trascinata ho bisogno di avere un mio ritmo dentro e una scorta di ossigeno fatta di integrità e autoconsapevolezza, perché basta una crepa sottile nella composizione della mia bolla e fluidi di energia altrui, singolari o collettivi, cominciano a interferire finché non è più possibile ignorarli. a volte è come dover vivere più vite contemporaneamente, nel bene e nel male. e torno a casa piena di incrostazioni sconosciute che è impossibile giustificare a partire dagli eventi della mia sola solita solitaria giornata.

Negli ululati…

negli ululati da coyote ferito a morte del vento, nell’insistenza con cui spinge dovunque può, sento echi sinistri della mia ostinazione a cercare senza requie un passaggio oltre i NO, seppure ferita dagli spigoli della N e intrappolata nella centrifuga della O. senza offesa per il vento ma farei volentieri a meno di questa fragilità di cristallo mascherata da tenacia.

Dal mio bozzolo…

dal mio bozzolo di locale contingente motivato lacrimoso triste sospiroso languido senso di mancanza ho pensato in un lampo la cosa migliore che può succedere adesso trascurando il sogno l’impossibile l’irrealizzabile l’insperabile è che piova. poi un lampo un tuono un rumore di gocce pesante deciso inequivocabile. piove. giusto il tempo di ringraziare e sono così insaziabile che penso se le cose stanno così allora forse potevo osare di più. giusto il tempo di sorridere della mia inestinguibile brama di dilatare la realtà e mi lascio abbracciare dal temporale con quello che c’è e quello che non c’è.

Ogni tanto…

ogni tanto nella pattumiera dei miei lunghi silenzi, zeppa di accidenti, vasi stracolmi sull’orlo del trabocco, ectoplasmi e cataplasmi, capitano anche formazioni cristalline di tempo, momenti di abbandono e totale disconnessione dai quali riescono a germogliare parole. a ossigenare il compost del presente recente c’è stata una settimana che ha regalato agli occhi vibrazioni azzurro-verdi in soluzione salina e li ha sfidati a sostenere i colori spudorati delle fioriture di stagione in un delirio di intensità: i gialli ipnotici dell’assenzio arboreo, il bianco screziato degli ubiqui asfodeli, i rossi spavaldi e i viola chiari scuri fintamente innocenti di fiori selvatici senza nome, le inafferrabili sfumature dei cespugli di euforbia pronti ad esplodere tra ginestre e fichi d’india, la cui visione d’insieme dona a chiunque l’ebbrezza della miopia. il pensiero ha viaggiato in modalità tessitura, la mia preferita, dove la ragione è ordito e la trama è materia di sogno. ad esempio, la ragione ha ordito un trasferimento a cagliari mentre i sogni lo tramavano in perfetta sintonia.

Domani a quest’ora….

domani a quest’ora tecnicamente sarà già primavera. non potevo non soffermarmi davanti all’altare della tastiera e ritualmente lasciar muovere le dita in suo devoto omaggio. dita che ultimamente sono state piuttosto distratte da numeri e schemi, ma hanno anche curato, riordinato, tagliato e cucito, impastato il pane e dispensato massaggi. il che fa delle mie mani del fine settimana due mani soddisfatte. appollaiati nello spazio angusto di un davanzale siamo io, due orchidee sospirose e un principio di notte, a scambiarci complimenti e a tessere l’elogio dell’umidità. vi penso, in forma di occhi potenziali che passano sull’altra faccia dei pixel di questo monitor, con voi condividendo, come viatico al passaggio di stagione, il colore di questa notte quieta, un nero deciso e impenetrabile come quello di certi pianoforti, nero a dispetto del velo grigio-rosato con cui l’umidità lo avvolge, nero grigio-rosato come certi pianoforti impolverati da un lungo inverno e trascurati da mani distratte altrove.

Come dice il calendario…

come dice il calendario, tra una ventina di giorni sarà il mio compleanno. con un rapido calcolo ricordo la cifra, quarantatre, e mi sembra già usata e assai poco distinta da un quarantadue o un quarantaquattro, tanto che rifaccio il conto per sicurezza. anche a nove, dieci, undici, dodici anni, ricordo, sentivo la necessità di non sbagliare il calcolo e lo rifacevo più e più volte, attirandolo in complesse triangolazioni con le età di fratello e sorelle, ma per motivi opposti a quelli attuali. allora ogni nuovo numero che per un anno si associava alla mia persona arrivava con un fagotto informe zeppo di incognite e ciò nonostante lo attendevo con trepidazione. penso (e scrivo) “ciò nonostante” perché mi risulta curioso, oggi, che si possa coltivare con tanta emozione un’aspettativa precisa verso qualcosa di assolutamente vago, indeterminato e nebuloso. perché, lo ricordo bene, non era l’ignoto in sé ad appassionarmi, ma piuttosto l’idea che sarebbe finalmente arrivato anche per me… (e qui si oltrepassano i recinti del linguaggio) “un certo agglomerato indeterminato di fatti astratti straordinariamente eccitanti”. il bello è che potrebbe essere così anche adesso (e in parte, lontanamente, lo è), poiché la discriminante non è l’età ma il livello di imbrigliamento dei pensieri nella rete da pesca del linguaggio. sono stata bambina e so perfettamente che nell’infanzia non ci sono affatto innocenza e purezza ma solo un altissimo livello di tolleranza dell’indeterminato e di accettazione del non sapere (con delega a un adulto qualunque ragionevolmente vicino e regolarmente presente). in un certo senso sono ancora bambina ogni volta che riesco a sentire, al di sopra dell’ordinario frastuono della catena di montaggio pensiero-linguaggio, quel ribollire di riferimenti fluttuanti che, per quanto non spendibili socialmente, esistono e mi fanno costantemente da guida.

Seguirono 40 giorni…

ponponSeguirono 40 giorni durante i quali la fanciulla restò silente, quasi fosse stata risucchiata dal suo ricettacolo in un piccolo accattivante caos a misura di cassetto, dove attardarsi ad ascoltare le storie di vita di un tappo di sughero frettolosamente assottigliato da una lama seghettata di coltello da cucina. Non un post e giusto qualche commento qua e là, che poteva far ragionevolmente pensare a fugaci sortite dal suo nascondiglio… Niente di tutto ciò. Quale persona informata dei fatti posso dirvi che la sua vita ha conosciuto importanti e radicali mutamenti ritmici, tanto che a fine giornata è spesso esausta e preda di capogiri che dispettosamente confondono in un unico turbine il già fatto e il da farsi. Peraltro, complici le sue ormai ben note origini extraterrestri, ella sta vivendo un periodo di non buona salute a causa del clima rigido che ha caratterizzato quest’ultimo mese (“ma del resto, è il tempo suo”, dicono tutti dentro e fuori dal ricettacolo subito dopo essersi lamentati del freddo). Ella dunque si dispiace della sua lunga assenza da questi luoghi, nei quali tenta di tanto in tanto fulmineamente di intrufolarsi, altrettanto fulmineamente rinunciando, causa cedimento degli occhi. Salutandovi tutti con estremo piacere e distribuendo baci, sorrisi, abbracci e giravolte, ella mi chiede di comunicarvi il suo stato di traboccante felicità spirituale, del quale vi farà partecipi non appena le acrobatiche circostanze della sua vita lo permetteranno.

Del Ricettacolo, paradiso dei pezzi spaiati


Il Ricettacolo è stato tra le prime cose che ho messo nella lista degli immancabili quando si è trattato di mettere su casa (“mettere su”, quasi fosse una sagoma di carta da issare e poi gonfiare come una rana origami…).
Che cos’è il Ricettacolo? Naturalmente non è una raccolta di ricette (benché mostri una naturale predilezione a formarsi in cucina). Il Ricettacolo è un’espressione del caos che può nascere spontaneamente oppure essere coltivato in casa (l’unica cura che richiede è la più totale noncuranza). Il suo habitat naturale è l’ultimo cassetto che rimane dopo che gli oggetti tipicamente riposti nei cassetti siano stati tutti ordinatamente distribuiti e sistemati. È a questo punto che il cassetto orfano, già ricettacolo in potenza, comincia ad accogliere e a dare generosamente rifugio a qualunque oggetto non classificabile o appartenente a una categoria non contemplata in anticipo. La crescita del Ricettacolo conosce momenti altamente commoventi, come quando riceve i superstiti che già sull’orlo della pattumiera vengono risparmiati da un pensiero del tipo “magari un domani può servire”. [Un’équipe di ricercatori dell’università di Trashford pare sia vicina a dimostrare l’emissione, da parte del Ricettacolo, di onde TLT* che inducono negli umani l’impulso a conservare oggetti assolutamente privi di senso e utilità.]
Una cosa è certa: mentre in un cassetto ben ordinato si trova facilmente quello che c’è, nel Ricettacolo è possibile trovare anche quello che non c’è, quello che non ci si aspettava, non si ricordava, non si sapeva di avere, nonché soluzioni a svariati problemi, dal mal di testa al senso di vuoto cosmico domenicale. È particolarmente inquietante che, tra le innumerevoli testimonianze raccolte, quasi tutti i coltivatori di Ricettacoli affermano di non conoscerne il contenuto e di avere appena un vago ricordo di avervi riposto oggetti volontariamente. Inoltre, è evidente la tendenza di alcuni oggetti a essere invariabilmente presenti nel Ricettacolo, a prescindere dalla sua collocazione geografica, storica e culturale. Tra questi è possibile enumerare: mozziconi di candela, biro che non scrivono (e probabilmente non hanno mai scritto), ricambi della moka della misura sbagliata, una o più pile esauste (se non altro per l’attesa), puntine da disegno, elastici, viti (ma mai chiodi), cartoline dal mare di sconosciuti (in bianco e nero), blister di optalidon contenenti un unico confetto (anch’esso in bianco e nero), bustine di semi non classificati (scaduti), apribottiglie arrugginiti, guarnizioni, fogli ingialliti fittamente scritti ma illeggibili, rosari di plastica, quel pratico foglio plastificato che fornisce quantità d’acqua e tempi di cottura di qualunque cosa in pentola a pressione (che non hai mai avuto), biglie di vetro, briciole di biscotti bionici.
Io amo il ricettacolo, come amo quella porzione confusa del mio cervello che ne ha le stesse caratteristiche. Se non avete un ricettacolo in casa, coltivatene uno: non vi deluderà!
Nel ricettacolo gli oggetti sono liberi di invecchiare al sicuro e al riparo da sguardi indiscreti. Lì dentro ognuno vive felice con la consapevolezza che semmai un giorno verrà ripescato dal caos, respirerà l’entusiasmo di chi ha trovato proprio quello che stava cercando e disperava di trovare nell’insulso limitato ordine dei cassetti regolamentari.

* TLT sta per Tana Libera Tutti.

Piove…

pioggia

Piove. Da tempo non scrivo e neanche penso di scrivere. Nella mia stanza a vetri passo un discreto tempo al computer, immersa in attività che sarebbero anche divertenti se riuscissi a interromperle prima della soglia della nausea. Passata tale soglia posso andare solo in decompressione attraverso la danza o il sonno, o entrambe in ordine sparso. Anche scrivere sarebbe bello, se solo trovassi il modo di raccontare che sto vivendo un’incantevole felicità incastonata al centro di un incubo, un po’ come incontrare l’anima gemella nel bel mezzo di un labirinto che sta per esplodere: metà del tempo amoreggi con un funesto tictac di sottofondo e l’altra metà cerchi l’uscita con un senso di estasi in sottofondo.
Più di così non riesco a diradare le nebbie dell’indicibile (o pigrizia che dir si voglia). La pioggia saprebbe raccontare meglio, la pioggia che intanto ha trasformato la stanza a vetri in sottomarino e l’esterno in una cosmica sala prove. Mi metto ad ascoltarla. Il programma stasera prevede una delle sue sofisticate sinfonie di sgocciolii, scrosci, schiaffetti, applausi composti, voci che bisbigliano, frittura inodore, fuga di dama con vesti fruscianti, sveglia impazzita, tumulto di piazza lontana, schiocco di lingua da degustazione, pianto sommesso di sirene.

Mi chiedo se sia capitato a qualcun altro…

Mi chiedo se sia capitato a qualcun altro di sentirsi improvvisamente trasformato, come un salto quantico di crescita. A me era successo solo una volta, intorno ai 17 anni, subito dopo una terribile discussione con mio padre, e me ne accorsi perché mettendomi furiosamente a scrivere vidi comparire sul foglio una scrittura non mia, diversa da quella che mi usciva dal polso fino a poco prima. È chiaro che si parla sempre dell’idea che si ha di se stessi, di se stessi visti e sentiti dall’interno. Oggi mi è successo di nuovo, con la sensazione di essere cambiata completamente, come se ogni cellula avesse emesso lo stesso sospiro e in un colpo solo fosse passata a uno stato differente. Più che un salto di crescita l’ho sentito però distintamente, senza rammarico o resistenza, come un salto di invecchiamento. Chi mi conoscerà d’ora in poi – mi è venuto da pensare – mi vedrà diversa, in un modo che ancora non conosco neanch’io. Strana sensazione, di tristezza e sollievo allo stesso tempo.

C’è una qualità speciale…

C’è una qualità speciale nelle cosiddette faccende domestiche che me le rende particolarmente gradite. A farmele piacere basterebbe forse solo il fatto che inducono movimenti delle mani vari, insoliti e curiosi. Ma in più quei gesti hanno la maniera in cui sono stati appresi, fin dall’infanzia, osservando la mamma in azione: gli occhi hanno visto, il corpo ha registrato e assorbito, e a distanza di tanto tempo le mani eseguono attingendo esclusivamente alla loro memoria, senza alcun bisogno di essere guidate. Questa peculiarità di movimenti che uniscono storia e istinto fa sì che durante quell’attività nelle mie mani si muovano le mani di una lunga catena di antenate che, devote o annoiate, hanno tramandato senza parole la qualità dei propri gesti. E per ognuna di loro ci saranno stati apporti esterni e ramificazioni impossibili da ricostruire, piccole e grandi variazioni che mettono nelle mie mani molto di più del loro saper fare le cose a immagine e somiglianza delle rispettive genitrici. Nelle mie mani confluiscono la loro ribellione, i capricci, le esperienze esotiche, i gesti cari appresi da amori segreti, le variazioni sul tema indotte da momenti di difficoltà, passate a osservatrici ignare come la regola. Sarà la presenza di questo spessore temporale ed emozionale che ogni volta mi porta a eseguire compiti altrimenti ingrati come una danza intrisa di antichi segreti. E sarà forse per questo che durante le faccende si attivano così facilmente e spontaneamente ricordi, il mio piccolo contributo a una misteriosa tradizione di gesti quotidiani.

Strano questo tempo di cura…

Strano questo tempo di cura, questo vivere senza colpi di scena con quasi nulla da decidere. Tutto quello che c’è da fare è amministrare con regolarità e diligente tempismo interventi di manutenzione. E aspettare, incubando pensieri e infilando collanine di dubbi e curiosità in miniatura impossibili da verificare. Sembra quasi che la vita giri su una ruota secondaria, fuori concorso. Tutto tace qui, nell’occhio del ciclope.

Chissà da quali torti…

Chissà da quali torti si allontana avvampata di sdegno quest’ultima settimana d’estate. Una delle sue recenti burrascose invettive ha svegliato bruscamente dal meritato riposo stagionale i bulbi di giacinti armeni che hanno drizzato le antenne verso il cielo color ematoma. Li guardo crescere dalla finestra, evitando spruzzi e spifferi, perché sto di nuovo male (kudra la cagionevole) e nel confronto ci troviamo pari in determinazione e sensuale curiosità. Coraggio, fatemi vedere come si fa che appena sarò pronta vi farò il verso.

Alla fine mi sono ritrovata…

Alla fine mi sono ritrovata e l’enigma è stato brillantemente risolto. I numeri inesistenti ai quali mi cercavo appartenevano a quel genere di miraggi che va sotto il nome di aspettative. Potentissimi adorabili dispettosi miraggi che ti danno per sveglia e pimpante mentre sei addormentata in fondo a una tasca del giorno come un mezzo sandwich di pollo frettolosamente nascosto e dimenticato giace in fondo alla tasca di un soprabito (immagine insolita per una vegetariana che nasconde infatti una citazione; metto in palio uno dei miei cuori per chi la sentisse suonare familiare). Ma alla fine, dicevo, mi sono ritrovata: dimoro fine-estatica in questa stagione delle piogge, interrogando senza fretta l’esuberante pianta di basilico magico per sapere dove andare. Mi abito da abbastanza tempo per riconoscere nel fremito che anima i miei piedi un’incontenibile voglia di mettermi in viaggio.

Sono tornata?

A chiunque abbia provato almeno una volta l’urgenza di mettersi in contatto con qualcuno e l’impossibilità di farlo non suonerà nuova la descrizione speleologica del fenomeno. Continua ricapitolazione ordinata di tutti i dati a disposizione: numeri e di conseguenza luoghi, orari e abitudini, alla ricerca di preziosissimi frammenti dimenticati. Il tempo scandito dai tentativi ridondanti, pervasi da un’ansia capricciosa al di fuori di ogni logica, come se l’insistenza irrazionale potesse fare il miracolo che non riesce alla ragione. Intanto le chiamate senza risposta e i messaggi lasciati ovunque si perdono in un vuoto ormai sovrappopolato dalle ipotesi più fantasiose. Cieca smania e affilata astuzia si azzuffano e fanno a chi grida più forte, ognuna certa di poter suggerire la soluzione di sicuro effetto. L’urgenza si fa brama, desiderio che punta i piedi, la ripetizione diventa rituale magico, attingendo a immagini e parole che possano attirare verso di sé l’oggetto della spasmodica ricerca. Alla fine ci si addormenta esausti senza quasi ricordare il motivo di quella lotta all’ultimo sangue, cullati dalla flebile speranza di ricevere la soluzione in sogno, a compenso di tanti sforzi, e con il pugno stretto attorno a un corda che ci servirà domani per ricominciare. Ecco, a volte è così che mi sento, o per meglio dire, a volte è così che mi cerco.

Parto alla volta di Settembre


Il mio piccolo laboratorio di alchimia è in piena attività e da qui alla fine di agosto mi porterà in luoghi diversi. Grazie al dono innato di cadere preda della distrazione al momento giusto, ultimamente ho perso di vista il risultato e ho agito ciecamente (o meglio veggentemente) guidata dalla sola passione. Attualmente mi trovo nella condizione, inedita e quasi surreale, di attendere con trepidazione non uno ma quattro eventi. Eventi diversi e tra loro stranieri che hanno in comune la rara qualità di farsi pregustare con gioia senza l’ansia di definirli con l’immaginazione. Bastano così come sono, nebulosi e sfocati, per suscitare quel caratteristico brivido scalatore che con perizia e sensazionale velocità risale dal coccige all’atlante. Di questo ringrazio e pubblicamente gioisco.

Il motto di questi giorni è…

Il motto di questi giorni è: “Tutti i nodi vengono al pettine”. Nella versione colpevolizzante fa pensare a ciò che immancabilmente viene a galla dopo essere stato più o meno consapevolmente nascosto, ignorato o trascurato. La versione rassicurante, che prediligo, è una versione da circo: senza affanno o disperazione, prima o poi ciò che è stato respinto, accantonato, travestito da ‘non è niente’, si autoorganizza e dà spettacolo, non senza un periodo di meticolose prove. A quel punto non resta che godersi l’esibizione, magari con un sospiro qua e là e la consapevolezza che i bis non saranno infiniti e che alla fine, a luci spente, i teatranti torneranno a chiedere il da farsi alla loro regista occulta.
Direbbe la mia parte sintetica (anche in virtù di una perniciosa influenza):
con un inchino e un naso finto

viene a riscuotere
la mancata premura
il passato inosservato.
Dicono i pettini (anche leggermente piccati): Tutti i nodi vengono ai capelli!

Il bollino K

car

C’è una sola officina che accetti la Kudramobile del ’63 ed è la sola che sia in grado di rimetterla in sesto ogni volta che va in panne. Niente pezzi di ricambio, questo lo so da sempre. O la cambio oppure me la tengo con le sue peculiari anomalie, le stesse con cui è uscita dalla fabbrica in una notte di febbraio: il motore sempre surriscaldato, i filtri che non filtrano, e quel modo unico e curioso con cui la vernice si scrosta continuamente creando intricati e misteriosi disegni. Ho sempre pensato che si tratti di mappe ma non ho ancora scoperto di quale estensione spaziale o temporale.
Al momento è quasi ultimata la regolazione del carburatore ed è stata definita una miscela ottimale per favorire il raffreddamento del motore, con ciò ripristinando livelli accettabili di lucidità e pazienza. La paura ha cambiato colore, di nuovo la testa capeggia, le mani maneggiano, gli occhi occhieggiano e il cuore è tornato cordiale. Tuttavia, si rendono ancora necessarie, nei prossimi 15 giorni, un’accurata pulizia dei filtri e un programma di lubrificazione di tutte le parti meccaniche, dopo di che, dicono gli esperti, la Kudramobile potrà essere rimessa su strada e conseguentemente su blog.
Fino al mio ritorno, vi dedico tutti i sorrisi nonostante, i sorrisi perché e i sorrisi e basta.

Ma perché?

ma perché?
il perché con le braccia aperte, vicino alla resa, il perché della strada che non si trova, del passaggio che non riesce, del motore che gira a vuoto, del miraggio che continua a scivolare in avanti, della sospensione prolungata, degli ostacoli di cattiva qualità disseminati su un cammino in salita. Perché la forza potente giocosa sublime che sento nell’animo deve dibattersi in un corpo sempre sofferente? perché le stesse identiche cose che in certi momenti mi rendono felice, in altri mi feriscono profondamente?

Sul terreno della confusione…

Sul terreno della confusione, sull’argilla del dilemma, sul marmo severo della sofferenza amorosa, ognuno dovrebbe poter lasciare un’impronta a testimonianza del suo passaggio, cosicché chiunque vi si trovi sospinto possa evitare almeno di sentirsi solo. (Il malcapitato potrebbe, chissà, trovarsi il cuore distratto, incuriosito, intenerito, alla scoperta dei nomi di amici e parenti, alcuni insospettabili, che hanno vergato tremanti il loro “X è stato qui”).

Ci sono idee…

Ci sono idee che di giorno restano sepolte in chissà quale letto di paglia o cenere, ma con l’avanzare della notte sciolgono ogni vincolo e dilagano liquide nello spazio. Ne percepisco il sollievo, dopo lunghe punitive ore di risalita da quella zona insignificante dell’onda che a nessun poeta verrebbe in mente di celebrare. Di giorno la quota di pensiero che resta libera si dirige sul fondo del mare e sui suoi inquietanti tesori oppure plana col fiato sospeso sulla cresta dell’onda, frequenta territori dai quali attingere coraggio e intravedere l’ombra di un mistero sontuoso, immensamente più grande del brodo di mediocrità immarcescibile nel quale dimeno gli arti per restare a galla.
Poi si fa sera, l’acquosa corsa finisce e non mi sembra vero; ma quasi sempre la prima impressione è che sia troppo tardi, che resti giusto il tempo per contarmi le ossa rotte e i crampi alla mimica. Ed è lì che lo spazio talvolta prende a espandersi, il buio scavalca come un ladruncolo ubriaco il confine simbolico delle finestre aperte e scivola dentro leggero agitato determinato ma senza un piano preciso. Ed è lì che anche il frutto aspro e pungente del difendersi e resistere quotidiano incontra la sua formula chimica gemella e si trasforma in un succo denso e inebriante.
Sono qui, incuneata in un sorriso di gratitudine, che non sapendo descrivere il sapore di questo succo di idee inattese e dolcemente confuse, ho disegnato a parole la forma del bicchiere.

Quando la stanchezza…

Quando la stanchezza fa voglia di piangere…farebbe bene un bagno o una passeggiata ma il tempo è scaduto e scaturiscono solo parole strette in cordata come i muscoli della schiena beffardi non se ne vanno mica a spasso a esercitare creatività, loro che possono, ma si incanalano lungo i percorsi scavati dalla consuetudine posturale e dai manuali di anatomia e fisiologia per infermieri.

In modalità risparmio energetico viene meno l’esigenza di spiegarsi, va bene tutto: basta che resti un’intercapedine di spazio vitale dove possano alloggiare sette corpi sottili e un vigile urbano per ogni chakra nel pieno rispetto della 626 antincendio haccp salavalatesta beghelli e un minimo di privacy opportunamente richiesta entro i termini prescritti all’Inafferrabile Garante secondo il decreto legislativo 196/03. Tutto il resto non è un problema mio. Sono libera: posso scegliere il mio gestore di telefonia a scatti d’ira, la mia azienda di fiducia per la rimozione di rifiuti tossici e ingombranti, il mio fattore di protezione UVA, UVB e prossimamente su questi schermi tutto l’alfabeto, il mio fornitore personalizzato di metano-ti-dà-una-mano che se scelgo di usare il gas per guadagnare un’intercapedine modello infinity mi regalerà punti fiammella, nonché un bonus di 500 metri cubi per ogni amico che ho convinto a gasarsi invece di usare il solito squallido veleno. Quante succulente opportunità da prendere al volo, quante ammiccanti proposte maturano alle alte temperature! Profferta valida fino al 30 giugno 2005, vedi prospetto informativo, leggere attentamente le avvertenze scritte in piccolo e se la vista non ti assiste partecipa al mese della prevenzione e se la vista è già andata c’è sempre il mese dell’allegra rassegnazione (download in corso, 12 oggetti rimanenti, disponibili per l’adozione a distanza).

Ho letto su un manuale…

Ho letto su un manuale di ecologia domestica che lo scarafaggio (Blatta Orientalis) non ama i profumi intensi e in particolare detesta le leziose fragranze pensate per la femmina umana (Homo Sapiens). Eppure ho incontrato una colonia di blatte orientali, che approfitto per salutare, che smentivano tale assunto. Ero in un lontano paese orientalis che facevo tante cose tra cui, per sopravvivere, la bambinaia con vitto, alloggio e argent de poche (che ho scoperto con piacere che cosa fosse per l’occasione). Avevo la mia linda stanzetta da letto e da studio con bagno,   balconcino invaso da nevi perenni, ornato da file di ridanciane cornacchie appollaiate sulla ringhiera, e una vista su montagne così alte ma così alte che al cielo non restava che un filo di spazio, ad altezza divinità, per esporre il suo zucchero filato su sfondo blu. Il primo incontro con una blatta orientalis avvenne di notte, nella visita rituale al bagno prima del meritato riposo della bambinaia-studiosa: nel bel mezzo del solito pretenzioso scenario con vasca da bagno a una piazza e mezza intarsiata di pseudo lapislazzuli c’era un essere colore del caffè tostato, un numero imprecisato di zampe e due antenne che in totale sprezzo della mia presenza continuavano imperterrite a dattilografare barzellette sporche. Il primo pensiero reattivo, dopo un tentativo fallito di dissociazione e teletrasporto in un mondo senza blatte, è stato: Baygon! Il secondo, con una crescita esponenziale in saggezza, è stato: comunque vado a dormire. Eppure quell’incontro mi aveva segnato memoria e fantasia come accade con i colpi di fulmine, e nei giorni successivi mi chiedevo se lo avrei incontrato ancora e dove e quando e che cosa avrei potuto fare per negoziare la pace senza spargimenti di sangue. Ma le cavità ispezionate non davano segni di vita e per qualche giorno l’ospite non si manifestò, tanto che mi ero quasi convertita all’idea della guerra preventiva dei filosofi baygoniani. Ma una notte…lo so che è difficile da credere ma una notte fui svegliata da un rumore simile alle battute sussurrate con complicità tra due amici, unici rimasti svegli ad una festa dove è trascorso un fiume alcoolico in piena. In punta di piedi e forse ancora dormendo mi introdussi sulla scena del presunto delitto ed eccoli lì, tre balordi a banchettare col sapone sul bordo della vasca. Stavolta non furono così spavaldi e al mio irrompere sul parterre si rifugiarono nel tunnel spaziale dal quale provenivano, rivelandomi così un’informazione determinante. Eppure, sarà che anch’io ero in terra straniera, sarà che averli sentiti blatterare me li aveva resi interlocutori più abbordabili, ma invece della guerra cominciò un periodo di colloqui e trattative notturne, durante il quale fu deliberato all’unanimità che ogni notte avrei fatto trovare loro, nell’ora e nel luogo convenuto, un congruo pezzo di sapone, in cambio della loro assenza durante i miei passaggi in bagno. Mancò solo la stretta di zampe ma l’accordo fu registrato e siglato dal membro più anziano dei dattilografi. Devo dire che furono assolutamente leali e più avanti, poco prima della mia partenza, in un clima di distensione, ci accordammo per incontri notturni di amabili chiacchiere tra specie, ai quali accorreva la tribù al completo, lucidata a festa.

…che le mani davvero…

…che le mani davvero non amano essere guidate e comandate dal pensiero e dall’intenzione. È sempre stato così: gli occhi registrano un gesto, un movimento, e le mani fremono per ripeterlo. In tutto ciò, la mia mente non è abbastanza veloce per seguire e controllare il processo di apprendimento, cosicché della maggior parte dei gesti non potrei dire che li ho imparati come ho imparato tante altre cose. Le mie mani imparano per guizzi segreti e inconsapevoli e in ciò sono fonte di continue sorprese. Capita che in un gesto spontaneo io riconosca chiaramente la presenza delle persone cui quei gesti sono originariamente appartenuti. Sono movimenti precisi al millimetro: una minima variazione di tracciato e l’effetto svanisce. Il corpo entra nel proprio ricordo come la mano in un guanto. Se non interferisco posso prolungare a piacimento l’esperienza ed è il modo che preferisco per evocare persone care, forzatamente lontane nello spazio o nel tempo.
Alcuni movimenti le mie mani li hanno imparati in fretta, ma hanno dovuto aspettare, fremendo di impazienza, che gli venissero riconosciuti. Penso a quando da bambina aiutavo mia madre a piegare le lenzuola, subito dopo averle tolte dal filo. Lei di là e io di qua, le mie braccia mai abbastanza lunghe da poter stendere la mia parte completamente, restavo impettita e in punta di piedi per aumentarmi un po’ e si piegava, prima a metà, poi ancora a metà, facendo attenzione che non si formassero pieghe, e alla fine ci avvicinavamo passo passo, io con le braccia in alto perché il lenzuolo non toccasse terra, e a quel punto dovevo lasciare la presa, mentre lei faceva quel delizioso gioco di dita con cui le due parti venivano unite, per poi piegarle ancora una volta appoggiandosi alla gamba destra leggermente sollevata. La prima volta che mia madre ha ceduto alle mie richieste e ha lasciato che fossi io a tenere il lenzuolo e a fare l’ultima mossa, ho avuto la certezza di essere diventata grande.

…ma più di tutto osservo…

mani…ma più di tutto osservo cosa fa il corpo e ascolto rapita i suoi insegnamenti, con una spiccata predilezione per le mani. Non c’è testo o maestro che sappia parlare in modo così diretto, e il percorso per la comprensione non potrebbe essere più breve. Col corpo si gioca in casa. Prendi l’intelligenza delle mani, la loro raffinata sensibilità e il modo in cui sanno opporsi alla dittatura della mente-caporeparto. La mente dice prendi questo, questo e quest’altro e loro eseguono finché ha senso, poi mollano qualcosa, lasciano andare, mettendo in secondo piano la croce delle conseguenze, anche se saranno sempre loro a dover raccogliere. Penso a quando gli oggetti oppongono una resistenza inspiegabile: si va per sollevare o spostare una cosa che sappiamo leggerissima e la troviamo pesante e inamovibile. Ogni volta mi stupisce come un minuscolo incastro tra due oggetti possa renderli solidali, sommarne i pesi e mettere in crisi le nostre aspettative. In questi casi la mente di solito ordina alle mani di insistere e tirare di più e metterci più forza. Ma le mani di fronte alle crisi isteriche della caporeparto si mettono a fare tutt’altro: cercano, esplorano, aggirano l’ostacolo ed eseguono il compito senza entrare in conflitto. Le mani vanno a sentire l’acqua, prendono al volo, fanno gioco di squadra con gli occhi quando c’è da portare la scodella di brodo bollente troppo piena. Le mani non sono solo il mio venerabile maestro, sono il mio modello ultimo: voglio assolutamente essere come loro.

Di nuovo distesa…

Di nuovo distesa sotto il mantello della notte, grata ad un silenzio che finalmente tace. Sfilano carovane di suggestioni e presenze gradite, una ad una, senza servizio d’ordine. Brividi nel parco giochi della schiena. Ognuna scivola come un rivolo d’acqua, in una corsa senza respiro, per farsi goccia tonda, lustra di tempo, fresca di frenata. E una volta immobile prende a brillare di calore aggiunto, come un occhio cerchiato su un lunario muto.

L’aria vibra…

L’aria vibra di pensieri toccati dalla mano del buio, distrazioni abusive, riti di passaggio abbreviati, semplici procedure di controllo nell’evenienza di esistere.
I have a hiding place when spring marches in.
Acque sacre che scorrono tra bassi venusiani,  a porte aperte sul rincorrersi di selvagge speranze.
gonna lay down
gonna lay down

Equilibrismi


Al buio e all’altezza mi sono abituata da tempo. Eppure di tanto in tanto ancora mi sorprendo a guardare giù. La paura di cadere passa in un lampo. Più difficile contrastare il dubbio di aver dimenticato o peggio abbandonato qualcosa lì sotto e la maligna tentazione di scendere dal filo. Altre volte, invece, le sgangherate melodie del vento sono perturbate da voci insistenti e perniciose, delle quali, per ovvi motivi, non posso voltarmi a cercare la provenienza. L’unico modo di ridurle al silenzio è un laconico ma perentorio ‘ Lo so’.

Il talismano incompreso

SMturkmen

Ho con me questo monile del Turkmenistan da 14 anni. Non è mai stato chiuso in un cassetto ma anzi, mi ha accompagnato in tante avventure. Potrei descriverlo a occhi chiusi eppure…
eppure guardandolo oggi mi è parso chiarissimo che racconta una storia molto antica e mi pare impossibile non averlo mai notato prima. O forse devo preoccuparmi? Insomma, qualcun altro ci vede un riferimento all’anatomia e alla fisiologia umana?

Stasera vorrei parlare…

Stasera vorrei parlare, vorrei scrivere e soprattutto vorrei innaffiare la fine di questa generosa giornata di lacrime d’annata. Però non ci riesco, e mi viene da chiedermi che differenza c’è tra quando quel vorrei si traduce immediatamente in atto e quando invece mi tiene sul filo…
Ciò nonostante, non posso fare a meno di ringraziare con un inchino profondo, e appena un po’ brillo, per l’abbondanza delle cose che sento e per una Giornata che come la più amorevole e paziente delle mamme mi ha tenuto in braccio e cullato senza mettermi giù neanche per un istante.

C’è un momento, nel cuore della notte…

C’è un momento, nel cuore della notte, in cui viene versata l’ultima goccia di nero che il vaso delle tenebre possa contenere.
È il culmine della notte, il momento in cui tutti, ma proprio tutti dormono: un secondo dopo la caduta dell’ultimo insonne, un secondo prima che qualcuno sollevi il sipario delle palpebre per scacciare un incubo, cambiare posizione e riaddormentarsi.
È il momento a cui a nessuno è dato di assistere, quando il vento prende lezioni di valzer, i rami più alti degli alberi disputano di logica e gli uccelli più smaliziati imitano le suonerie dei cellulari.

Pensavo…

Pensavo. Pensavo a quando la realtà ribalta le aspettative e colpisce a tradimento. Pensavo a quel ribollire furioso della mente in cerca di rivalsa, sul trampolino dell’ossessione. Per quanta cura si riponga nell’imbandire la tavola della vendetta, i commensali non arrivano mai, oppure accade che i nostri prelibati bocconi al veleno non si rivelino all’altezza delle nostre funeste intenzioni. Essere oggetto di cattiveria non ci trasforma in cattivi, se non nel senso etimologico di prigionieri su un terreno che non ci appartiene. Del resto, il gioco di prestigio del perdono non mi è mai riuscito. Per ora, me la cavo concedendo a grandi e piccole furie sedute senza orologio di sogno a occhi aperti, finché non trovo la rivalsa perfetta che ristabilisca l’equilibrio.
Pensavo così, ma con leggerezza, osservando le antiche gloriose cicatrici di gioco che ho incise sull’anima.

Nei giorni che passano…

Nei giorni che passano tra un post e l’altro, tornando sul luogo del diletto, mi riaggancio emotivamente con il momento in cui ho scritto l’ultimo post e quasi impercettibilmente qualcosa dentro di me prende le misure e mi restituisce un senso di distanza più o meno grande. Per piccola che sia quella differenza, spesso l’effetto che mi fa è un po’ quello del “passa l’angelo e dice amen”, che è stata una delle principali fonti di brividi della mia infanzia. Certe cose non si dovevano fare, tipo le smorfie o gli occhi storti, perché si rischiava che un angelo di passaggio lo trasformasse nel tuo stato normale. Ora, ricordo perfettamente la mia logica formato bambina che sollevava mille obiezioni. Dopo tutti quei leggiadri angeli custodi da pregare prima della nanna, da dove saltavano fuori questi angeli vendicatori e perché avrebbero dovuto punire così orribilmente un gesto tanto lieve? A sapere il numero di questi vendicatori innominati si sarebbe potuta calcolare la probabilità di farsi beccare ma con entità ultraterrene così capricciose e irrazionali non ci si poteva fidare. L’aspetto più irritante era l’irreversibilità della punizione. E lì, pensavo, nella peggiore delle ipotesi, si poteva forse rimediare vivendo in stato di smorfia perenne, in quanto uno strabico acquisito che faccia gli occhi storti avrà pure come risultato gli occhi dritti…
A quell’età la lista delle paure da sfidare era piuttosto lunga, praticamente un lavoro a tempo pieno. Però alcune erano più infide e non generavano i brividi belli, come la storia dell’orco che andavo a rileggere continuamente per riprovare la stessa emozione paralizzante e fuggirne ogni volta sana e salva. Alcune, come il “passa l’angelo e dice amen”, avevano un potere più profondo perché si capiva che al di là dell’intento educativo (?) ne avevano timore anche gli adulti. E curiosamente, pur avendo sistematicamente trasgredito tutte le regole dell’educazione ricevuta dai miei genitori, il cordone ombelicale delle loro paure lo sento ancora tirare. Niente di grave, giusto qualche strappo di tanto in tanto. A lungo andare, ne sono convinta, riuscirò a partorirli…
p.s. per chi si fosse interrogato sulla misura esatta della mia distanza emotiva dal post precedente, sono lieta di annunciare che insisto nel sentirmi felice.

Quando sono felice…

Quando sono felice, come ora, può succedere che si sollevi il primo velo dalle cose ordinarie che ho attorno. Anche solo un assaggio, della fiammeggiante bellezza nascosta dietro ogni insignificante particolare, è capace di stordirmi. Così capita che io veda, nel subject di un qualunque messaggio trovato nella posta al lavoro, un promettente bagliore di poesia. Ora, trattandosi di prenotazioni alberghiere, non mi è stato facile condividere lo straordinario incastonato in un subject come about a room. Ma qui posso, non è vero?

Anime salve

Mille anni al mondo
mille ancora
che bell’inganno sei
anima mia
e che bello il mio tempo
che bella compagnia

sono giorni di finestre adornate
canti di stagione
anime salve in terra e in mare
sono state giornate furibonde
senza atti d’amore
senza calma di vento
solo passaggi e passaggi
passaggi di tempo

ore infinite come costellazioni e onde
spietate come gli occhi della memoria
altra memoria e non basta ancora
cose svanite
facce
e poi
il futuro…

Una cosa che ho sempre adorato


Una cosa che ho sempre adorato è sonnecchiare come un gatto in una stanza in cui altre persone sono in attività. Lo faccio quando posso, fin da piccina, e confesso che se è sera non resisto alla tentazione di farmi trasportare nel letto come un peso morto (nel caso in cui i presenti fossero fisicamente impossibilitati a farlo, anche essere delicatamente coperta e lasciata lì non è da buttar via). Dal momento in cui gli occhi si chiudono si apre ai sensi un mondo tutto da indovinare. Lo spazio intorno prende forme via via diverse, non più limitato dai muri ma ritagliato attorno alle emozioni inespresse di chi ci si sta muovendo: si contrae, si dilata, si increspa di onde o si sospende come un respiro trattenuto. I movimenti e i gesti sono disegnati dai rumori che producono e ogni cosa docilmente rivela il suo profumo. Qualunque discorso rimbomba in un esilarante abisso di ambiguità. La vita che ticchetta mi abbraccia, mi riguarda e non mi riguarda, mi contiene senza aspettative, mi riconosce il diritto a esistere dentro una culla di neonato o una bolla di sapone per un tempo di cui non sento i limiti.
Anche per questo forse mi piace dormire in posti sempre diversi, nel luogo della casa che sembra abbia qualcosa da dirmi. Pacatamente o con mille fremiti qualcosa intorno comunica in quel misterioso linguaggio comprensibile solo ai dormienti. Al risveglio, mi piace pensare che la posizione in cui mi trovo sia la mia ultima battuta in quel dialogo cosmico.

Poco più di tre settimane…

Poco più di tre settimane di questo nuovo anno e tremila chilometri in treno, con un bagaglio di confusione che non ho ancora disfatto. Al centro, come una perla, i giorni che una nipote di cinque anni ha scelto avventurosamente di passare con me, molto lontano da casa. Otto giorni per mano, ognuna col suo stralunato esperimento segreto della massima importanza: il mio, ritrovare la dolcezza perduta; il suo, cogliere il sonno di sorpresa e anche solo per una volta assistere da sveglia al momento esatto in cui arriva. Nessuna delle due ha trovato la sua formula alchemica ma ciò che si è ripetuto ogni giorno tra noi era quanto di più vicino ai nostri obiettivi impossibili. Ogni mattina, aprendo gli occhi, la trovavo seduta in paziente attesa sul bordo del mio letto, determinata a non perdere l’istante del mio risveglio, quasi fossi il sole in persona. Lo spicchio di luna del suo sorriso da attesa premiata è stata in tutti quei giorni la prima cosa che ho visto comparire, sublime manifestazione di dolcezza che scorre dagli occhi agli occhi…
E ancora mi tocca scrivere: domani parto. Altri treni, un altro migliaio di chilometri per il secondo funerale dell’anno. Ma sono quasi serena. La vita non è mai ambigua nei suoi suggerimenti. Il sole, la luna, l’eterno movimento, Dance dance dance di Murakami che sto rileggendo giusto in questi giorni, e Mon amie la rose di Françoise Hardy come colonna sonora, nella versione di Natacha Atlas. Non è forse zeppo di delizie il mio fagotto da vagabonda per caso?

Appunti dall’interno


Ho nell’animo minuscoli ripostigli di tempo
capaci di inghiottire vite intere
nei più intimi particolari
ma così opachi e angusti
visti da fuori
che sembrano pieni solo di polvere.


Ci sono anni e anni
che non riesco a ricordare.


Ci sono notti
in cui il sonno non somiglia a dormire
ma all’immobilità di un albero
abbattuto da un fulmine.


Ci sono uffici delle imposte
appena fuori dal cuore
che chiedono conto.


Domani parto.

Cronaca acronica

Sono stanca. Avrò pronunciato questa frase chissà quante volte eppure adesso ha un senso tutto diverso che non ho voglia di spiegare a nessuno. Sono stanca anche di spiegare. Sono stanca di sentirmi costretta a soddisfare la sete di informazioni degli altri. Il solo fatto di chiedere non dà diritto a una risposta. Il mondo mi assilla di domande e poi torna a girare come se niente fosse. Solo curiosità.
Sono una radice marcia, molle, saturata dalle lacrime, nonostante l’autunno sia secco e caldo come una coda sbiadita e sfilacciata di estate in pieno ottobre. La domenica sta giocando i suoi effetti speciali: isola, imbottisce, trapunta il pensiero, Qualcosa di freddo nel naso, gelido, ma asciutto. Metallo. Come una pistola. Suono convulso di domande, pronunciate dall’alto.
Una finestra a destra, ancora sole. A sinistra una poemette vapori spettrali che saturano l’atmosfera. È il prototipo dell’innocuo imbottito di esplosivi micidiali. Non per me, che sono stanca. Per me può fare quello che vuole. Non spero. Non desidero. Non mi struggo. Non aspetto. Non mi preoccupo. Non mi rammarico. Non progetto. Non mi interesso. Non servo. Non voglio. Non andrei da nessuna parte se non ci fosse a trasportarmi il tapis roulant di questa primitiva stanchezza. Corridoio. Cucina. Credenza. Flacone. Gocce. Bicchiere. Frigorifero. Latte. Contagocce. Una, due, trenta, tutte. Cucchiaino. Bicchiere pieno. Odore di latte e menta. Reminescenze di estate e di infanzia. Non per me, che sono stanca e non cammino ma faccio un passo e poi un altro passo. Non sento. Non mi pento. Non rispondo. Mi sdraio sul pavimento bianco ruvido della terrazza. Bevo. Un sorso: latte e menta. Un sorso più lungo: Viacal. L’ultimo sorso: una medusa verde menta imprigionata nella gola. Avevo ragione: sono stanca.
Una porta, aperta. Un soffitto grigio. Qualcuno vicino, senza parole. Una flebo sospesa. Un ago nel braccio, da qualche parte. Una continuità che non seguo. Freddo totale. Ogni tanto arriva qualcuno a cambiare il segnatempo che mi stilla secondi nelle vene. Ogni tanto arrivano spezzoni di frasi come spine. Domande. Singhiozzi. Una discontinuità che non seguo. Silenzio totale.
Ho ventiquattr’ore di tempo in circolo, cadute dall’alto goccia a goccia. Il nulla è di nuovo scandito dal calendario: lunedì 18 ottobre, pomeriggio. Più tardi vengono a prendermi. Cammino ma dentro non mi muovo. Sento ma non ascolto. Obbedisco. Corridoio. Ambulanza. Seduta. Legata. Assicurata.
Il viaggio dura poco. Si scende dall’ambulanza, si scendono le scale, fino a un budello freddo e male illuminato. Panche lungo le pareti scrostate. Mi siedono su una, quasi piena. Sei, sette persone, portate qui dal carro allegorico della domenica. Siamo tutti vestiti in modi assurdi. Abbiamo freddo, davanti a una porta chiusa. Alla mia destra una ragazzina anemica inglobata in un silenzio agghiacciante, immobile e diritta come la ballerina di un carillon. A sinistra una signora con un’impeccabile messa in piega all’antica. Altri sono più in là. Tutti fermi. Tutti muti. Solo un uomo alto e piegato in avanti cammina e parla. Distorce il corridoio con i suoi passi. Si dispera. Si incazza. Si calma. Vuole fumare. L’ombra bianca che lo segue passo passo gli parla, scherza, mercanteggia con un pacchetto di MS. Asseconda il vento. Nessuno si emoziona.
Il tempo entra goccia a goccia nello spazio lungo e angusto. Scorre. Passa. Nell’indifferenza generale. Un’altra dose di tempo inutile, non richiesto. Non serve a far passare la paura dell’uomo alto. Nessuno sa che farsene. Ma non importa. Qui o altrove. Lo spazio non è ancora tornato e ognuno si gode il suo vuoto insignificante sotto quella pioggia leggera di minuti. Solo l’uomo alto piegato in avanti cammina e parla. Nessuno si emoziona. Abbiamo freddo. Il rumore di passi regolari annuncia tre figure intere, due uomini e una donna. Sembrano alti anche loro. Aprono la porta e se la richiudono dietro parlottando. Poi tutto ritorna come prima, solo lo stillicidio del tempo, l’agitazione dell’uomo alto, il freddo. A uno a uno ci chiamano e ci fanno entrare. Dentro c’è un tavolo, una sedia da questa parte, tre dal lato delle figure in camice. Chiedono perché, scrivono su un foglio. Nessuno si emoziona.
Il dopo è esattamente uguale al prima. Lo spazio non è tornato. Sono stanca. Ma ora mi controllano e a intervalli regolari mi instillano tempo per farmi esistere.

Certi stati hanno bisogno di immagini…

Certi stati hanno bisogno di immagini per diventare parole. Nella mia condizione attuale di testimone muta ho letto l’ultimo post di Col e ho visto attraverso il suo sguardo prezioso un campo di granturco che ha appena dato tutto quello che poteva. Ho visto la terra di sotto portata in superficie, pavida e generosa, e ho sentito le mie parole risalire dal pozzo in cui erano precipitate, decise a marcire piuttosto che venire a galla troppo acerbe.

Proprio così mi sento, come terra di sotto restia a lasciare un silenzio ingarbugliato, percorso da fili di radici troncate ma pur sempre, si immagina, attraversate da un ricordo di vita. Indugio nell’abbraccio di questa pace sconvolta e urlante ma piena di frammenti noti, con i quali ho scambiato linfa e segreti. E non importa se si tratta ormai di un cimitero. Non ho ancora il coraggio del seme che germoglia. Ho bisogno di un attimo in più per fissare l’antico paesaggio, prima di espormi all’attesa del nuovo. Conosco bene la strada, ma fatico a pensare di (ri)nascere.

Una storia senza storia

La storia non mi è mai piaciuta. Ho sempre pensato che non fosse interessante come materia a sé ma che avrebbe funzionato meglio come scenario, come sfondo di altre materie. Infatti mi piaceva la storia dentro la geografia o dentro le lingue straniere, dove l’alto e il basso erano rimescolati in modi imprevedibili e tutto era impregnato di vita. I luoghi lontani nel tempo e nello spazio da bambina mi affascinavano totalmente, nel loro essere contemporaneamente reali e irreali. Che esistessero muschi e licheni e non esistesse invece la casa di marzapane nel bosco era una questione di fiducia. Unico flebile indizio a favore del primo era il vellutello del presepe, che da qualcuno avevo sentito chiamare muschio. Ma serviva comunque uno sforzo di immaginazione. Bisognava comporre con gli occhi della fantasia un paese freddo freddo, con i boschi, il vellutello alla base degli alberi, i licheni (alghe di terra dagli strani colori che non sapevo dove mettere), e poi alci e renne di passaggio (ma allora perché non anche babbo natale e la casetta di marzapane?).
E che dire delle parole in lingue straniere? Composizioni buffe di suoni che si incontravano qua e là in mezzo al paesaggio rassicurante dell’italiano, misteriose quanto i licheni e altrettanto incollocabili. Che per qualcuno fossero il lasciapassare per la vita quotidiana era di nuovo una questione di fiducia. Però una volta mi sono tolta una soddisfazione mozzafiato. Sulla scatola delle prugne secche della California, che compariva sempre in casa in concomitanza col vellutello, c’era un numero di telefono lunghissimo, ovviamente della California, nella mia immaginazione il numero di casa della famiglia Sunsweet, che a comporlo avrebbe prodotto uno squillo allegro e perentorio in una cucina con le tendine a quadretti bianchi e rossi. Come resistere? Ho solo aspettato il momento propizio e un giorno, tra mille tentennamenti, quel numero l’ho composto, ditine tremanti, come se telefonassi all’uomo nero, trattenendo il respiro. E qualcuno dall’altra parte ha risposto, ma non chiedetemi cosa: ero talmente fuori di me dall’emozione che per riprendermi ho dovuto trafugare una bella manciata di citrosodina, i granelli fatati che mi piaceva tanto sentir friggere sulla lingua, rigorosamente di nascosto e ad occhi chiusi.

Disintossicami

Non volevo scrivere di questa cosa, o forse sì ma, ecco, avevo dei dubbi. Sono nervosa come una tigrrre in una gabbia piccola piccola. Ho iniziato giusto oggi un programma di drastica riduzione del fumo organizzato da me medesima e nonostante la soddisfazione di aver diviso per cinque la razione quotidiana ho anche scoperto che le compulsioni tendono a scomporsi in tante piccole e imprevedibili pulsioni, tipo cercare di sfracellare qualunque oggetto capiti in mano, specialmente i bicchieri, o cantare canzoni a squarciagola sillabando le parole. Ora me ne vado a dormire, stremata dall’esperimento (domani è un altro giorno…grrrr…e chissà quali subdoli trucchi saprà ancora sfoderare la mia mente per dissuadermi). Ma è stato comunque interessante. Non mi ero mai resa conto, ad esempio, che la sigaretta una volta accesa si consuma comunque da sola. Dunque ogni cicca è simbolicamente una corsa contro il tempo attraverso un cerchio di fuoco.
Buonanotte. Temo che per un po’ i miei pensieri avranno come orbita un anello di fumo.

…no best is quite so good you don’t conceive a better…

La mia modernissima stazione meteorologica interiore (la cui esistenza mi regala fama di persona sensibile), registra in questi giorni fenomeni di straordinaria intensità. Saltando a pie’ pari la fase della tristezza abissale che è ormai in archivio, mi sento in dovere di avvisare che questo preciso momento è uno di quelli in cui la sottoscritta è investita da una corrente estatica di proporzioni cosmiche. In poche parole, sfido chiunque a deprimermi. Nonostante non ci sia un filo di vento ad allietare questa serata di saldi ottobrini, i campanelli appesi sul ponte di poppa suonano melodie celestiali e nelle tenebre sbocciano i fiori di qualunque pianta da fiore, o alternativamente germogliano germogli fuori stagione, richiamati dal mio umore-sirena a sollevare il capo dalla loro coltre di terra e fondi di caffè e a godersi in chiacchiere una serata speciale. Nell’aria si diffonde un profumo di sesamo tostato. Fenomeni che solo la tromba di Miles Davis è in grado di generare, sia nella versione ho qualcosa da dirti adesso che in quella da escavatrice dell’anima. Sarà forse l’effetto di un pomeriggio passato a maneggiare linguaggio, alle prese con una traduzione capitata un po’ per caso. Parole da prendere per mano e guidare, parole in assemblea, parole in sciopero, parole da convincere ad assumere quel significato senza un aumento di stipendio. E ad ogni angolo un paesaggio che incanta, di quelli che se sei solo non puoi far altro che morderti il labbro per l’occasione mancata da tutti gli altri. Il paesaggio dei gerundi, ad esempio, che danno all’italiano quell’aria da navigato vagabondo attrezzato per qualunque situazione. Ti avventuri nelle risorse di un’altra lingua e non trovi che eleganti signori in giacca e cravatta e non puoi sperare che serbino un coltellino svizzero nella ventiquattr’ore modello rigido. I nostri gerundi creano periodi con le tasche piene e la valigia coperta di adesivi, che in altre lingue non si possono rendere altrimenti che mettendo in riga un certo numero di turisti giapponesi, singole frasi sincopate che acquistano in ritmo ma perdono in pathos. Ma c’è da dire che in altre lingue si incontrano singole parole coraggiosamente disposte a portare pesi semantici che in italiano bisognerebbe assumere almeno quattro parole-operaie con regolare contratto e un’adeguata indennità di rischio di incomprensione. Parole, parole da cercare col lanternino in vicoli male illuminati, fermandosi a contrattare con improbabili cambiavalute lungo muri scrostati, con la sensazione di aver fatto un cattivo affare, pagando una commissione sempre troppo alta. Brrr…adoro frequentare questi bassifondi. E già pregusto sogni perfetti. Buonanotte.

Tornata

caleido

Dopo una massiccia dose di straniamento. Chissà perché essere assente in certi momenti diventa l’unico modo di essere presente. Forse è solo un modo di far combaciare l’interno con l’esterno: mi sento assente e allora mi assento per farmi visita. Fatto sta che una volta immersa nello sconosciuto mi ritorna in circolo una sensazione antica quanto la mia memoria, la sensazione di sentirmi crescere. Sento distintamente una specie di lieve scricchiolio, un rassicurante rumore di fondo, lo stesso di quando giocavo per ore e ore a lanciare la palla contro il muro e ogni lancio era diverso, così come ogni presa (o non presa); diversa la traiettoria, la forza, la posizione delle mani nella presa, la sensazione tattile, il peso della palla, l’impatto sul muro con quella leggera istantanea deformazione, il modo in cui cambiava la luce, il rumore, il tempo di ritorno, la mia reazione nel sentirmi alternativamente impegnata e disimpegnata, chiamata a prendere al volo e poi per una manciata di secondi libera di osservare la superficie del mio compagno di giochi, duro da andarci a sbattere ma gentile come nessun altro nella sua instancabile collaborazione.
Molto più realisticamente, a quel tempo, nulla si ripeteva due volte nello stesso modo ma tutto partecipava a uno stesso gioco intrigante e misterioso di somiglianze e differenze.
Forse anziché partire potrei procurarmi un caleidoscopio, se non sentissi il bisogno imperioso di sperimentare la vita anima e corpo, onda e particella.

Meanwhile

…nel frattempo…nessuno poteva immaginarlo (e perché poi?) ma non è che non ci fossi perché non mi andava o perché ero impegnata nei preparativi per il viaggio imminente. È che si è verificato un errore, poi un altro, poi mancava un driver di periferica (un autista disposto a guidare sulla linea romana 105?)… poi improvvisamente il malefico loop: il pc si riavvia e quando arriva a riavviarsi ci prende gusto e decide di farlo ancora e ancora e ancora… Esauriti i sotterfugi, gli stratagemmi, le suppliche e gli incantesimi sono passata agli anatemi e poi al paziente (?!) disassemblaggio e riassemblaggio pezzo per pezzo (col marinaio più anziano della nave che alla parola assemblaggio partiva con il solito racconto di quella volta che assaltarono la queen qualcosa). Tempo che passa, a friggere sulla sedia fissando lo schermo a ogni riavvio come dovesse apparire l’oracolo, ma anche un qualunque presentatore televisivo ad annunciare che hai azzeccato la formula e che ora funzionerà tutto come prima e anzi, al glorioso ritorno sul tuo blog troverai un commento dell’alieno perdutamente innamorato che hai appena sospirosamente sfrattato insieme al suo indegno compare (accidenti, neanche il tempo di raccontare l’epilogo dell’invasione dei complanetari…). Ma niente, il tempo passa e a poco a poco precipito nel gorgo di quel linguaggio infido da maggiordomo che il pc adotta quando qualcosa non funziona, fino a restarne inebetita. Qualunque sia il messaggio, sembra sempre che si sia appena conclusa un’operazione definitiva: la raccolta informazioni è stata completata, si desidera riavviare il computer ora? -mais non, prenderei volentieri una tazza di tè prima di procedere al riavvio monsieur, preferisco attendere. Io di solito aspetto, aspetto una telefonata, aspetto agli appuntamenti, aspetto prima di agire per non mettermi nei guai (oh quanto poco, oh quanto spesso). Il pc-maggiordomo mi chiede invece di attendere, il che mi evoca un aspettare in comodità, con un ventaglio di facilities a disposizione, un lussuoso campionario di opzioni e strumenti e risorse e preferenze. Tutta scena. Di solito c’è una e una sola cosa da scegliere. E spesso si chiama formattazione. L’ultima spiaggia. Che può anche significare il restare di fronte a uno schermo blu eclettico a contemplare un capolavoro logico del tipo formattazione 0% completata finché non raggiungi l’illuminazione attraverso la comprensione profonda della differenza fra zero e uno. L’unica distrazione (o forse l’unica compagnia) è stata un’ape vestita al solito modo che ronzava nervosamente attorno ai faretti del soffitto cercando di impollinarli. Mi è parso doveroso avvisarla che avevo nel case un controller raid, just in case. Ma l’ape alogena ha continuato a corteggiare i suoi fiori psichedelici mentre il Sistema avvisava me che il boot device non era accessibile. Non è un buon motivo per rifiutarsi di funzionare, come se io mi rifiutassi di muovere un passo perché non riesco a trovare gli stivali negli scatoloni del trasloco…
Se stasera sono qui è perché c’è stato un lieto fine e come sempre capita con le piccole ossessioni, quando sono concluse quasi quasi ne hai un bel ricordo, almeno nel loro aspetto di estraniamento. E poi, se prima l’interno del mio computer sembrava una ricostruzione in miniatura di Pompei, ora con la nuova scheda madre sembra Las Vegas. Vuoi mettere?

[La canzoncina, per chi la sente, l’ho lasciata dal post precedente perché è emozionalmente troppo esatta per le piccole fibrillazioni che stanno animando i Kudra-sotterranei].

La situazione è critica…

StampPavone

La situazione è critica, amici. Ora vi spiego. Di solito queste fasi di contatto non durano più di una settimana: si rivede la missione, si parla degli eventuali problemi di trasmissione e della qualità dei rapporti inviati, di solito ineccepibili (non per vantarmi). E si definisce la quantità di ricambi necessaria alla mia missione. Ma stavolta qualcosa è andato storto. D’accordo, nell’ultimo anno mi sono distratta parecchio, ho fatto qualche errore di trasmissione, ho preso il vizio di scrivere, conseguentemente richiedendo una quantità di dita e di cuori di ricambio che non poteva passare inosservata. Eppure ero certa che nessuna di queste anomalie fosse tale da compromettere la mia posizione… Il guaio è che il mio soggiorno terrestre ha prodotto effetti collaterali che hanno reso nebulosa la mia altrimenti cristallina capacità di giudizio. Ho parzialmente assorbito quella melassa emozionale che qui chiamano disinvoltamente “senso di colpa”. Così quando ho visto atterrare sul ponte della nave un’astronave delle nostre ho pensato subito a un’Ispezione. E ho tralasciato alcuni evidentissimi particolari che rendevano quei due figuri alquanto improbabili come agenti del controllo interplanetario. Per farla breve (anche perché mi tocca scrivere di nascosto), i due figuri in questione altro non sono che due balordi che hanno carpito le informazioni inviate dalla Terra e ne hanno ricavato l’impressione di una specie di paradiso. Allora si sono impadroniti di un mezzo adeguato e sono sbarcati qui spacciandosi per agenti speciali della divisione Caccia agli Inteneriti. Ci ho creduto per non più di cinque minuti…e. intendiamoci, che non sia vero è un sollievo, ma ora ho a bordo questi due che penzolano come cuccioli di cerpicas, tracannano birra, giocano a freesbee coi cd e si inebetiscono di video musicali anni ’70. Capirete perché è fondamentale evitare che scoprano il computer e le sue potenzialità. Ho detto loro che il monitor lcd è una lampada a raggi ulpianici, indispensabile a mantenere il mio incarnato credibile per i terrestri. Credo che abbia funzionato: solo la parola incarnato li ha fatti sghignazzare per una mezz’ora… Ora devo andare. Vi terrò informati, durante le sedute di lampada (hihihi). Si accettano consigli di ogni genere per liberarmene. Non ne posso più di quelle vocine stridule che mi chiamano di continuo da prua a poppa: Kuuuuuudraaaaaa..

Kudra Invaded

Che fine ho fatto?

SMpavone

Che fine ho fatto? Bip… Non mi sento tanto bene… ZzzzzZZZzzzzZ… Ecco. La versione ufficiale è che sono nata con un’alterazione genetica che sometimes produce strani sintomi. Immaginate di svegliarvi al mattino con la sensazione di essere ricoperti di uno strato di domopack urticante, una tuta integrale un paio di misure più stretta del necessario. E neanche un rettangolino rosso da tirare per liberarsi dell’incarto. La sensibilità al contatto con l’esterno è la stessa di un pupazzo di plastica, con la differenza che il pupazzo reagisce all’esposizione al caldo e al freddo come ci si aspetta, riscaldandosi e raffreddandosi. Invece la pellicola che vi avvolge segue leggi tutte sue, che inducono in voi sensazioni estreme di caldo o di freddo apparentemente irrelate e accompagnate da bruciori e pruriti random. Ho reso l’idea? Ah, dimenticavo: l’unico sollievo possibile è restare immersi in acqua salata e…fantasticare.
[La verrrità è che sto comunicando col mio pianeta…bip…per rrrinegoziare i terrrmini della mia misssione e quindi…ZzzzzZZZzzzzZ…in quesssto moMento non posso garrrantire possst LeGgibili…ke ppoi Loro non voGliono e se mi ssscoprono mi faranno cerrrto diventare BLU come una piuma di pavone, il nossstro animale sssacrro. Abbbiate passsiensa……ZzzzzZZZzzzzZ]

Kudrrra Ink(apsulated)

La cabina di comando…

La cabina di comando di capitan astrokudra è sovrastata da un cielo muto. Sullo sfondo una pasta di luce candida, riflettore di una dogana atmosferica davanti alla quale sfilano nuvole usate ma non piovute, avanzi di stagione senza nulla da dichiarare. Si sta facendo ordine, lassù, lentamente e giudiziosamente si sgombera, si spazzola e si lustra in vista dell’imminente rappresentazione, in cartellone tra meno di una settimana. E anche il capitano si prepara, lucida gli ottoni e le assi mielate del pavimento, antiche di tre mesi marittimi, e apre gli armadi per trarne il suo completo da felicità. Quella in arrivo è decisamente la sua stagione, la più equilibrata, la più torbida, la più profonda. Tocca le corde della trasformazione e le fa vibrare di musica da resa. Non è saccente, l’autunno, né aspro nei giudizi, non lancia sfide né proclami. Pazientemente cancella ogni residuo dell’esuberanza estiva e ne raccoglie con un sorriso indulgente le promesse non mantenute, restituendo a consolazione e distrazione frutti stralunati dai colori decisi. L’autunno accompagna le foglie al macero ma prima le fa volare e le tinge di rossi e di gialli lussuosi. Sono suoi la ruggine, le spezie, il fango vellutato, il bianco lunare dei funghi, l’incedere torpido del verme e il lucido cuoio delle castagne. L’autunno rimescola le carte del bello e del brutto, alludendo a una trasformazione infinita. L’autunno è una morte che si può ancora guardare senza paura.

Kudramondo

snowcircle

Nel mondo del tutto è possibile, o kudramondo, non ci vuole niente per entrarci. Il kudramondo è sempre lì, placida estensione del reale che racchiude il non vissuto per distrazione, per restrizione, per convenzione. I suoi confini sono così vicini che mi basta stiracchiarmi per oltrepassarli con la punta delle dita. Impossibili da seguire, i confini del kudramondo disegnano traiettorie ideali per farfalle curiose e instancabili. Eppure se ne intravedono ammiccanti frammenti dovunque. In un bicchiere di latte, nella musica imprevedibile di un sospiro, nelle risposte profumate del basilico al minimo contatto, in un ricciolo che improvvisamente si affaccia dalla fronte per concedersi un altro punto di vista sul mondo, e nella danza, quando si resta sospesi e per un istante si scompare dalla faccia della terra.

Mi capita…


Mi capita di aprire il mio blog con la stessa attitudine con cui apro quelli che leggo regolarmente, vale a dire che non escludo, o a volte mi aspetto o sono curiosa di oppure desidero ardentemente trovarvi un nuovo post.
Più che pigrizia o imperdonabile distrazione è il frutto di un eccesso di permanenza in un mio mondo dove tutto è possibile.

So far so good

Fin qui, tutto bene. Fuga o partenza che sia, la nave procede a vele spiegate verso altri lidi, lontano da quella nebbia fitta di dubbi, illusioni, incomprensioni, aspettative inconsistenti. Il capitano esce di scena con il vento nei capelli e gli occhi socchiusi. Il fatto che nessuno lo rincorra gli pare di buon auspicio. Comunque sia non ha nessuna intenzione di rallentare né di guardare dove stia andando. Una volta tanto vuole provare l’ebbrezza di sbagliare in velocità. Lascia una scia che è quasi un sorriso.

Il capitano è un cuore solo…

Il capitano è un cuore solo che pulsa nella sua nave-conchiglia, tormentata da venti sempre più impetuosi. Ha lasciato sbarcare l’equipaggio per vedersela da solo con i suoi mostri di schiuma. Ha deciso di rinunciare a ogni controllo, il capitano, con la pavida speranza che la deriva contenga una perla di traslucida saggezza. Ora prega. Prega come non ha mai fatto, il capitano, perché quel cuore impazzito possa ancora offrire al mondo il suo lato di culla, soffice e arrotondato e non la punta, disperata minaccia, difesa estrema contro chiunque tenti di avvicinarsi.


E chiude il contatto radio __________________________________________________________________

Il capitano è triste…

Il capitano è triste. Il capitano sente avvicinarsi una tempesta e sa che come sempre dovrà metterci tutta la sua appassionata perizia ma non sarà quella a tenere a galla la nave. Se resisterà, per l’ennesima volta, per l’ennesima volta sarà stata la sorte a salvarlo, o magari un errore provvidenziale, o un canto di sirena immaginato al momento giusto. Il capitano sente il cuore vibrare nel petto e ora sa di aver sbagliato a imprigionare lì il suo tesoro. Avrebbe dovuto seppellirlo su qualche isola deserta e disegnare una mappa, utile magari per una prossima vita. Ora se ne sta immobile, il capitano, a guardare la Pregiata Compagnia delle Onde che si prepara a rappresentare i suoi errori fatali. Immobile, come se potesse ancora decidere qualcosa. Deriso dal fragore delle onde che sovrasta le parole e smozzica le sillabe. E quasi invidia, il capitano, l’impeto e la furia che fanno ribollire l’orizzonte. Fosse tutta nelle sue mani, quella forza, il capitano leverebbe l’ancora per distogliere la prua dalla malìa di quell’isola inaccessibile, dalla linea sinuosa delle sue coste, dai suoi colori sempre diversi, come gli occhi di una persona amata. Solo un soffio di quella forza basterebbe a spezzare il filo che lo incatena al bianco sprezzante di un faro perennemente spento. Si muoverebbe anche senza vento, la nave del capitano, le vele gonfiate dai sospiri, mentre il sale antico delle sue lacrime sarebbe amorevolmente raccolto dalle mani di smeraldo del mare. Ma ogni forza lo ha abbandonato, consumata dal fuoco lento di una caparbia attesa. Da troppo tempo il capitano governa una nave immobile di fronte a un faro che non emette segnali. Non più, non ancora? Il capitano lo sa, che potrebbe non esserci più nessuno a manovrare quelle luci e di tanto in tanto pare convincersene. Ma sa anche che da solo non ce la fa e di questo è più convinto che mai. Allora si inebria di illusioni e continua a macerarsi nella melassa dell’attesa. Ma oggi, oggi il capitano è più triste che mai: di quel vino dolce che in tante sere solitarie ha stemperato l’amarezza non è rimasta che una goccia. Un’ultima goccia di illusione, disperata, anestetizzante. È quell’ultimo filo dorato a tenere legato il capitano a una posizione che non può più chiamarsi nemmeno speranza. È abbandono, resa, concessione, disillusione, impotenza, rinuncia, assenza di desideri. È un ultimo respiro incastrato nel petto, un’espirazione trattenuta. Il capitano sa che non durerà ancora a lungo. Che la tempesta faccia il suo corso, allora. Il capitano è qui ad aspettarla, ché solo quello sa fare. Solo dopo potrà ripartire, con quello che sarà rimasto, forse tutto, forse niente. È fatto così, il capitano: finché può, si tiene tutto nel cuore.

A volte essere viva…

A volte essere viva somiglia a una veglia forzata. Non c’è altro che una stanza nella semioscurità e qualcuno che sta male. Dio solo sa dove si nascondono in questi momenti tutte le dolcezze con le quali la vita sa manifestarsi. Così lontane, che quasi credo di averle immaginate o lette, sì lette in una favola di duemila anni fa.

Eccomi!

nave2

Eccomi! Arrivata a destinazione dopo un viaggio lunghiiissimo e faticoso, durante il quale ho visto cose che voi umani… ma quelle magari le racconterò un’altra volta.
La nuova casa è bellissimissimissima e somiglia in tutto e per tutto a una nave. Beh, a dire il vero è ancora un cantiere navale e astrokudra sta acquisendo i muscoli del capitano. Ma la stiva è ben fornita e la sera i marinai ubriachi cantano canzoni struggenti che raccontano di amori perduti e porti lontani dove non torneranno mai più…
Il mare, è un mare di emozioni. Del resto è indubitabile che le emozioni siano liquide, prima di cristallizzarsi in sentimenti oppure rifluire.
Ora devo andare. A presto. A quando posso. A più non posso.

Pensieri sconnessi di una ballerina momentaneamente sgualcita e zoppa, tra un sonno e l’altro sotto l’ombrello della fortuna…

Non si imballa solo, da queste parti. Si brinda anche, alla buona sorte che ha voluto concedere salute e ancora vita ai traslocanti, a dispetto di una collisione auto – camion contromano (vissuta dalla parte dell’auto). Quello che si dice il botto. Che poi in realtà è stato un botto al rallentatore. Se il libro Bambini nel tempo di McEwan non fosse già inscatolato avrei ripreso volentieri e magari trascritto qui il pezzo dell’incidente, che mi colpì letterariamente e oggi, nel ricordo, mi ritorna in circolo per la precisione e l’abilità con cui vi è descritta l’alterazione del tempo. Gli eventi traumatici non si ricordano con ordine. È come se la memoria non riuscisse, in questo caso, a mettere in atto i suoi trucchetti strutturali. L’evento è lì, nel suo peculiare fuori sincrono. Prima una sensazione impalpabile, come una ventata in assenza di aria, qualcosa che è registrato allo stesso tempo come reale e impossibile. Poi si accende un registratore arcaico: la percezione dello spazio si restringe su un punto focale, mentre il tempo si sospende e si dilata. L’attesa si riempie di una quantità incredibile di micropensieri assolutamente inutili che si cancellano all’istante quando arriva, in ritardo, il rumore che suggella l’evento. Niente di tutto ciò, né prima né durante, somigliava alla paura. Nel campionario di quelle che di solito chiamo paure non esiste niente del genere. Sarà che in circostanze normali si sperimenta la paura di ciò che non si conosce ma si prevede. E spesso c’è un aspetto bello, in quella fibrillazione, comunque accompagnato da un cocktail di pensieri. Invece lì c’è stato un bagno di assurdità, una sospensione del senso, un tremore della mente impossibilitata a concentrarsi dentro un corpo restio a mollare lo stato di allarme. Spazio ristretto, tempo dilatato. Corpo contratto, mente annacquata. Chissà, forse il corpo è lo spazio e la mente è il tempo. E forse è per questo che procedono insieme facilmente quando non si vorrebbe essere altrove, né prima né dopo né da un’altra parte.
La notte dopo ho fatto sogni ancora proiettati dal registratore arcaico, dei quali ricordo solo colori scuri. Ma la costante era un’alfetta bordeaux che passava sparata a gran velocità tagliando la strada al sogno. Poi è passato un giorno sconnesso, con un’anomala tristezza sempre in agguato. E un altro giorno, oggi, in cui finalmente il corpo ha reclamato la sua parte di attenzione, illustrando tutto il campionario dei dolori, ma generosamente concedendo frequenti coffee break a base di sonno profondo. Il sonno, quel tipo di sonno primordiale, potente e irresistibile, che viene fuori al momento giusto come un paracadute.
Domani si vedrà. Per ora ho provveduto a rendere il tutto filosoficamente più accattivante con una contusione casalinga aggiuntiva: dribbling di scatoloni e caviglia all’incrocio dei pali del mio bellissimo letto in legno massello. Ove torno, colma di gratitudine, salutandovi con un inchino spaziale e temporale.
Colonna sonora: Il Pulcino Ballerino

Menu da trasloco

Trasloco entro fine mese, ovviamente su un altro pianeta. Credo di riuscire a bloggare anche da lì, anche se magari dopo un po’ pscriverò tipo eta beta. Buena estate a everybody.

I MENU DI ASTROKUDRA

#2 Menu da trasloco

– T’imballo alla rinfusa
– Involtini della casa
– Facchino ripieno
– Sfratto misto
– Sgombri in umido

– Cianfrusaglie al cartoccio

DESSERT:
Cassata

CARTA DEI VINI:
Sfursat di Valtellina
Chiarandà vada (Donnafugata)

sponsored by: Scotch Imballantine

Sospiri

eccomi qui amorevolmente ritratta…ritratto


Astrocucciola: …la terra è rotonda, vero?
Astrokudra: …eh sì…
Astrocucciola: …allora mi sa che all’orizzonte c’è una cascaaata!


Non c’è confine che gli occhi grandi dei bambini non sappiano cavalcare e scavalcare. Ho passato con la nipote astrocucciola una manciata di giorni speciali, a sentir risuonare il mio nome ogni momento, chiamata e richiamata, creata e ricreata. E attirata nella sua visione di un mondo-giocattolo, ho ricevuto continui inviti a saltare al di là, a passare con disinvoltura e giocosa eccitazione tra le maglie più strette del linguaggio e della logica.
Sono tornata con un carico di tesori, che brillano stasera in un silenzio anomalo. Mi rigiro tra le mani la mia metà del magico bastone della fortuna, un rametto che lei ha raccolto sulla spiaggia appena arrivata e che ha immerso nell’acqua e poi spezzato in due prima di separarci. E mi accarezzo la mente con il suo misterioso, incantevole e potente grido di battaglia di questi giorni:
doppia totalità!!!

I menu di astrokudra

#1: Olio su Teglia
(menu per pittori e appassionati)


– Tagliatele alla fontana
– Bronzino all’acqua pazza
– Petti di pollock al bacon
– Parmigianina
– Fiamminga di formaggi, cagli e burri
– Bozzetti al vin santo


CARTA DEI VINI:


Moretto da Brescia
Rosso Fiorentino
Verrocchio ( a boccioni)
Bramantino (bianco frizzante)

Tagliastelle

tagliastelle

IL MERCATINO
DI ASTROKUDRA
:


oggetti in-tro-va-bi-li
a prezzi im-bat-ti-bi-li


vetrina

Stamattina, a metà del percorso dal letto alla caffettiera, i miei occhi si sono imbattuti in un inquietante messaggio:
“stai per scoprire un mondo che non c’era”.
Brivido. Ecco, avrei dovuto lavare i piatti, ieri sera…
Ma era solo la pubblicità di una linea telefonica, che prometteva la soluzione per scoprire un mondo nuovo (speriamo migliore) e la libertà di muoversi in rete a una velocità mai vista (un contentino per i pesci appena pescati, un must per i palloni da calcio, la solita iperbole per il consumatore qualunque).
A caffè bevuto, senza troppo impegno intellettuale, mi sono detta che in giro c’è una quantità di messaggi spaventosa… Pur non guardando la tv bastano minime rotazioni della testa, in casa o fuori, per captare parole parole parole. Le immagini che le accompagnano riesco a evitarle più agevolmente ma le parole no, vocali e consonanti mi calamitano gli occhi trascinandomi in un meccanismo di lettura automatica al quale non riesco a sottrarmi. Concedendosi un gioco di estraniamento (la mia specialità), l’effetto di tutti quei messaggi altisonanti e infestati di superlativi è prima di tutto buffo. I superlativi assoluti, tipo altissima purissima levissima, mi suonano ancora ingenui, forse perché predominavano ai primordi della pubblicità, come l’amarissimo che fa benissimo. Mi ricordano il tempo lontano dell’infanzia in cui ogni volta che sentivo “così tenero che si taglia con un grissino”, provavo un senso di pena immaginando un bambino pallido e malaticcio che si feriva persino con un inoffensivo grissino, magari al pranzo di matrimonio della sorella. [Devo dire che ancora oggi tendo a interpretare “ampi saloni per banchetti” come una fastidiosa ostentazione, profondamente ingiusta verso chi vive in un monolocale. Ma questa è un’altra storia].
Soprattutto mi colpisce il tono apocalittico trasmesso dallo schema della novità totale che, se osservato con un pizzico di coscienza, è irresistibilmente ridicolo. Ogni giorno gli angusti limiti del passato vengono brillantemente scavalcati, ogni esperienza è insuperabile, mai provata prima, avanti anni luce, dicono che ci stupirà, non potremo non notare la differenza, non potremo più farne a meno (la voce qui ha un’eco metallica). E ogni presunta novità è la prima e l’ultima, l’unica, l’irripetibile e inconfondibile (che ce ne faremmo di tutti questi aggettivi a propulsione emozionale se non esistesse la pubblicità?).
C’è stato un periodo, parecchi anni fa, in cui si faceva un gran parlare di messaggi subliminali, pratica condannata come sleale. Ora in un certo senso tutta la pubblicità è diventata subliminale, nel senso che fornisce informazioni assolutamente inutili, che non si rivolgono alla nostra capacità di scelta e discernimento. La maggior parte delle volte, partendo dal contenuto del messaggio, non si capisce neanche la natura del prodotto pubblicizzato. Siamo attraversati da un flusso impalpabile che non chiede nulla alla nostra intelligenza ma mira direttamente a quella commovente tendenza alla fascinazione che si trastulla nelle nostre coscienze, nel seminterrato psichedelico della mente.

To beep or not to beep

mobile
Ho sempre guardato con una certa perplessità a quei cartelli con la scritta “noi non possiamo entrare”, corredati di disegnini di animali domestici che disneyanamente si fanno portavoce di una limitazione di cui sono vittime. Certo sono apparentemente più gentili di un rude “Vietato l’ingresso ai cani”. Eppure c’è sotto qualcosa di falso, forse perché se lo devono dire da soli quando si tratta di una faccenda tutta umana. E gli esseri umani di solito non compaiono mogi su avvisi del tipo “Io non posso fumare sui treni”. Comunque oggi in un ambulatorio ne ho visto uno, di cartello, che utilizzava lo stesso modello, solo che al posto dei cani e dei gatti c’era un simpatico cellulare che diceva: “Io interferisco con le apparecchiature sanitarie. Spegnimi. Mi riaccenderai quando esci.”
Passato il primo momento di amarezza sui tempi in cui viviamo e con i quali non mi sento molto in pace, ho concepito un’immagine del cellulare come Tamagochi che mi ha quasi dirottato verso la tenerezza. Mi è parso di sentirne la vocina pigolante che chiede la pappa-ricarica…
Il cellulare. Per me è un oggetto estraneo, che non ho mai sentito il bisogno di possedere e di usare. L’ho visto crescere nelle mani e nelle tasche dei miei simili, all’inizio con perplessità, poi con sospetto e un senso di distanza e persino di fastidio, fino ad approdare a un più sano senso di curiosità per un fenomeno che non mi vedeva partecipe ma che potevo considerare alla stessa stregua dei cd e del computer. Tutte cose che ho visto spuntare dal nulla in questo tempo in cui mi è capitato di vivere. Probabilmente se fossi una di quelle persone che non usano un computer mi sentirei ugualmente esclusa, esclusa da un’esperienza che pare interessare l’esistenza della maggior parte dei miei simili. E che spesso sfiora la simbiosi. Guardando il fenomeno dall’esterno, tanti aspetti del rapporto uomo-cellulare non mi fanno un bell’effetto. Eppure da spettatrice (non pagante), ne osservo anche alcuni positivi. Mi piace vedere le persone emozionarsi in pubblico, cosa che succedeva raramente nell’era pre-mobile. Mi fa piacere veder spuntare sorrisi e occhi brillare all’arrivo di una chiamata o di un messaggio, laddove prima erano soprattutto sbuffi o smorfie di impazienza e di esasperazione. Sentirsi pensati e accompagnati durante una giornata qualunque è una bella sensazione, sia che passi attraverso una serena convinzione del cuore, sia che si affidi alla sorpresa di una voce o a una manciata di caratteri su un display che fa beep beep. Ci vuole proprio una dose di dolcezza a compensare tante asprezze, qualcosa di rotondo e morbido che sdrammatizzi il piglio agguerrito di quelle scarpe dalla punta sempre più acuminata.

Ero pazzo. E mi piaceva.

Di nuovo il mio ufficio era vuoto. Niente brune dalle gambe voluttuose, niente ragazzine dagli occhiali obliqui, niente uomini bruni dagli occhi da sicario.
Mi sedetti alla scrivania e guardai la luce morire. I rumori della folla che rincasava si erano spenti. Fuori le insegne al neon cominciavano a guardarsi con odio, ai due lati del boulevard. C’era qualcosa da fare, ma non sapevo che cosa. Fosse quel che fosse non sarebbe servito a niente. Feci ordine sulla scrivania, ascoltando lo stridio d’un secchio sulle piastrelle del corridoio. Riposi le mie carte in un cassetto, raddrizzai il portapenne, tirai fuori uno straccio e spolverai il piano di vetro e il telefono. Era nero e brillante, nella luce che svaniva. Non avrebbe suonato quella sera. Nessuno mi avrebbe chiamato. Non ora, non questa volta. Forse mai più. Riposi lo straccio, piegato, con la polvere dentro, mi appoggiai all’indietro e rimasi seduto, senza fumare, senza nemmeno pensare. Ero un uomo vuoto, negativo. Non avevo viso, né significato né personalità. Quasi non avevo un nome. Non mi sentivo di mangiare. Non avevo nemmeno voglia di un bicchierino. Ero come il foglio di ieri del calendario, accartocciato in fondo al cestino della carta straccia.
Così mi tirai vicino il telefono e formai il numero di Mavis Weld. Suonò e suonò e suonò. Nove volte. È un bel suonare, Marlowe. Credo che non ci sia nessuno in casa. Nessuno è in casa, per te. Deposi il ricevitore. Chi vorresti chiamare, ora? Non hai un amico, da qualche parte, che potrebbe aver piacere di sentire la tua voce? No. Nessuno.
Fate che suoni il telefono, prego. Fate che qualcuno mi chiami e mi trascini di nuovo nella razza umana. Anche un poliziotto. Anche Maglashan. Nessuno è obbligato a volermi bene. Voglio solo andarmene da questa stella di ghiaccio.
Il telefono suonò.
– Amigo – disse la voce di Dolores. – C’è un guaio. Un guaio grosso. Lei vuol vedervi. Le andate a genio. Vi considera un uomo onesto.
– Dove? -chiesi. Non fu veramente una domanda. Fu solo un suono che mi venne dalla gola. Succhiai il cannello della pipa spenta e mi chinai, con la fronte su una mano, covando il telefono. Era una voce con cui parlare, se non altro.
– Verrete?
– Veglierei un pappagallo malato, questa notte. Dove devo andare?
– Verrò io a prendervi. Sarò davanti a casa vostra fra un quarto d’ora. Non è facile arrivare dove dobbiamo andare.
– E come facciamo a tornare indietro? – chiesi. – O la cosa non ha importanza?
Ma lei aveva già riappeso.
Al banco del drugstore ebbi il tempo di buttar giù due tazze di caffè e un tramezzino di formaggio fuso con due fette di surrogato di prosciutto affondate nel mezzo, come un pesce morto nella melma, in fondo a uno stagno prosciugato.
Ero pazzo. E mi piaceva.


(Raymond Chandler, La sorellina)

Breathe (quasi una preghiera)

With every waking breath I breathe
I see what life has dealt to me
With every sadness I deny
I feel a chance inside me die

Give me a taste of something new
To touch to hold to pull me through
Send me a guiding light that shines
Across this darkened life of mine

Breathe some soul in me
Breathe your gift of love to me
Breathe life to lay ‘fore me
Breathe to make me breathe


For every man who built a home
A paper promise for his own
He fights against an open flow
Of lies and failures, we all know

To those who have and who have not
How can you live with what you’ve got?
Give me a touch of something sure
I could be happy evermore

Breathe some soul in me
Breathe your gift of love to me
Breathe life to lay ‘fore me
To see to make me breathe

Breathe your honesty
Breathe your innocence to me
Breathe your word and set me free
Breathe to make me breathe

This life prepares the strangest things
The dreams we dream of what life brings
The highest highs can turn around
To sow love’s seeds on stony ground

Breathe
Breathe

Breathe some soul in me
Breathe your gift of love to me
Breathe life to lay ‘fore me
To see to make me breathe

Breathe your honesty
Breathe your innocence to me
Breathe your word and set me free
Breathe to make me breathe

Pulsar

O pulsar
[Testo: Augusto de Campos (da Stelegramas); Musica: Caetano Veloso]pulsar


Onde quer que você esteja
Em Marte ou Eldorado
Abra a janela e veja
O pulsar quase mudo
Abraço de anos-luz
Que nenhum sol aquece
E o oco escuro esquece

Dovunque tu sia
Su Marte o a Eldorado
Apri la finestra e guarda
Il pulsar quasi muto
Abbraccio di anni luce
Neanche un sole che lo riscaldi
O un buco nero che lo ricordi

La felicità è vicina quanto il cielo


Ah, come mi piacerebbe saper raccontare storie!
Ma niente, i racconti cominciano a inciamparmi già nella testa.
C’è sempre qualcosa che mi sfugge, qualcosa che si ingarbuglia, qualcosa che si presenta spavaldo per primo quando dovrebbe venire per ultimo.
Raccontare una storia, dall’inizio alla fine, mi appare un’impresa simile a inventare le regole di un gioco insieme a un’intera classe dell’asilo, affrontando la corrente impetuosa dei “no, aspetta”, dei “perché lui sì e io no” e dei “prima io”.
Per fortuna non faccio la maestra d’asilo…
Eppure ci sono storie che ho dentro e che sospirano per essere srotolate e ben distese, che si guardano allo specchio e si sognano in guisa di tappeti volanti, dove il lettore possa anche solamente sdraiarsi a riposare, oppure viaggiare, se ne ha voglia, nell’inconsistenza carezzevole e senza confini del cielo.
Penso al cielo, al nostro ingenuo ostinarci a considerarlo in alto, infinitamente lontano, quasi un fondale per l’esposizione permanente di Sole, Luna e Stelle (e alle sporadiche mostre di Lampi e Arcobaleni). Mentre ci siamo immersi dalla testa ai piedi.
Penso alle storie, al nostro ingenuo ostinarci a trovarvi un inizio, uno svolgimento e una fine. Mentre ci siamo immersi dalla testa ai piedi.
E forse capisco perché di raccontarle no, proprio non mi riesce.
C’è che ai miei occhi ogni storia vissuta prende l’avvio e si dispiega attraverso minuscoli, delicati frammenti di pura novità che si trasformano momento per momento.
Descriverli è come afferrare i colori di una farfalla in volo.
C’è che la sostanza più preziosa del vissuto, di ogni storia e della vita in sé, la ritrovo nel cristallo del non-sapere, materia prima naturalmente disponibile nell’infanzia, in ciò che chiamiamo incanto, meraviglia, brivido, ingenuità o semplicemente purezza.
Ecco, proprio questo vorrei saper raccontare, il sapore di una storia così come si percepisce quando la presuntuosa ascia del sapere non ha ancora tagliato tutti i rami dello stupore.
L’emozione del punto interrogativo.
Il brivido del chissà come continua.
Che poi, ironicamente, è il ritratto della condizione umana, esposta a una pervasiva incertezza che potrebbe essere la sua beatitudine.
Eppure crescendo ci si ingarbuglia, come le storie nella mia testa, ci si barrica dietro false certezze, si teme l’imprevedibile e l’inaspettato, si lascia che il brivido del nuovo inacidisca in ansia.
Mi piacerebbe ricordarmene, quando, di fronte ai cambiamenti, mi faccio prendere dalla paura.
Mi piacerebbe avere scolpito sulla porta del cuore che l’opposto della paura non è il coraggio ma la curiosità.

ilcielo

Magari da fuori…

Magari da fuori non si percepisce così chiaramente ma questo blog ultimamente si è manifestato in modo molto più simile a un diario. “C’è il rischio di disturbare, se ci sono pulizie in corso?” mi scrive Col nei commenti all’ultimo post, da me stessa accostato a una pulizia di pasqua. Spero di non aver dato questa impressione anche se mi rendo conto che mi sono usciti dalle dita materiali molto più crudi e confusi, come crudi e confusi sono stati questi ultimi giorni. Non sono riuscita a distillare in scrittura quello che ho in circolo, come è successo in passato persino con le lacrime che hanno inumidito il mio compleanno. È che a volte la prospettiva si restringe e non trovo più traccia del mondo pieno e animato dentro il quale respiro e vivo. Entro in uno spazio di dubbio, di incomprensione, di ansia, dal quale mi impongo di uscire solo quando avrò un quadro chiaro e nuovo. È uno spazio ristretto, angusto, dove porto con me il mio cubo di rubik mentale e ordino di bloccare tutte le uscite. E lì dentro faccio l’anima in pena, l’animaletto impaurito che si chiude nella tana a guardare fisso il poster dei cacciatori. Guardo in faccia i pensieri e le emozioni che mi fanno paura finché non passa il tremore e non sento crescere dentro di me il coraggio di affrontarli. È sempre stato così, da quando ricordi, è in questo modo che ho lottato contro le irriproducibili volute della g in prima elementare, cacciando volontari aiutanti e consolatori e chiudendomi in una stanza da sola a guardare fisso quel capriccioso gioco di curve che mi metteva in crisi le mani e gli occhi. Finché la punta della matita ha smesso di tremare o di impuntarsi sulla carta fino a strapparla, e la paura si è tramutata da reazione in azione.

Stavolta devo aver lasciato socchiusa una delle porte perché un’eco smorzata del mio percorso solitario si è insinuata negli ultimi post. E da quella stessa fessura sono arrivati preziosi sussurri dei quali non posso che essere pubblicamente grata: uno ha trasformato la mia fine in un inizio, un altro mi ha offerto un fiore per ogni lacrima, e un altro ancora mi ha cambiato la speranza in sorpresa.

Post scriptum (veramente anche quello di prima era scriptum, nonché post, comunque…):
per una decina di giorni mi trasferirò in un luogo che è l’esatto opposto della cella angusta arredata dal solo cubo di rubik. Sarà un luogo idealmente senza confini dove mi muoverò a passi di danza. E porterò con me tutto, ma proprio tutto, perché possa trasformarsi in una forma di energia in movimento, vita allo stato puro che riconquista tutto lo spazio che c’è.

shell

aspetta aspetta sp…

aspetta

aspetta

spirali

vortici

sussulti

ritorni

respiro

liscio

percorso

forza

spinta

interruzione

percezione

scomposta

altalenante

pioggia

sole

inizio

fine

rifiuto

paura

spreco

umano

limitato

rifiuto

paura

coscienza

comprensione

grande

enorme

incondizionata

invincibile

smisurata

esagerata

scossa

dignità

orgoglio

terremoto

crescita

presunzione

espansione

parole dette

parole non dette

mute

risolutive

inutili

pensieri

sprecati

inespressi

bendati

troncati

bloccati

realtà

diga

bavaglio

canale

flusso

chiuso

stretto

onde

sussulti

intermittenze

grida

soffocate

distacco

prova

possibile

impossibile

aperto

chiuso

aperto

chiuso

basta

ancora

perché

capisco

ma

se

perché

stop: non aggiungere altro

fine

finale

finito

Silenzio…

Silenzio

Non ho parole mie, né sono in grado di disegnare spirali di silenzio abbastanza eloquenti per gli occhi come lo sarebbe il nulla per le orecchie. Allora rubo le parole a una persona che amo, sapendo che non le sto facendo un torto, perché tra noi lo facciamo continuamente:
sono giorni confusi, disperati e tranquilli, vuoti e stracolmi, sereni e tormentati, caldi e freddi, appassionati e insensibili.

primavera

Unz! Spring! Grok!

Il post precedente era del 6 marzo. Dunque sono passati più di dieci giorni, credo un record di silenzio nella mia seppur breve esperienza di blogger. Il fatto è che il 6 marzo era inverno, mentre da qualche giorno, nonostante il calendario, a Roma è primavera. Al risveglio non ti trovi solamente una giornata tutta nuova, te la ritrovi ancora imballata, avvolta in un cellophane di nebbiolina-aerosoleggiante. Ma è solo la cortina dietro alla quale il sole si veste di lustrini, pudico e intrigante, prima di mostrarsi in tutto il suo splendore. E già questa città è una città sdraiata, voluttuosamente allungata sui suoi colli, che nel caso ci si dimenticasse come si fa a rilassarsi basta andare a guardarla dal Gianicolo. E già è scandalosamente bella in ogni stagione, come un grande abbraccio che ti tira fuori sospiri e palpiti di meraviglia anche se credi di conoscerla alla perfezione. Ma in primavera, in primavera si esalta la sua disponibilità a far trapassare la natura attraverso il cemento, si svela la sua complicità di città che tiene in piedi una relazione segreta e clandestina con la terra e gli alberi e il cielo e forse anche col mare, poco più in là, a solo una maratonina di distanza.
O magari sto parlando di me, che ogni giorno, da qualche giorno, aspetto che si formi una certa chiazza di sole sul pavimento della mia stanza per andarmici a sdraiare, facendo tesoro della lezione che ogni gatto insegna. La pietra del pavimento che si riscalda, materia fredda che si rende disponibile e invitante, il corpo che si dispone ad abbandonare tutto il suo peso senza seguire i percorsi obbligati delle tensioni. E ci si viene incontro. Due superfici che decidono di fare la pace e lasciar andare ogni rigidità, con l’aiuto del calore. Di solito mi addormento, se ne ho bisogno, oppure cado in uno stato che è pura presenza, libero dal ronzio elettrico del pensiero.
Questo mi porta la primavera, il messaggio che la natura è lì sotto, intatta e noncurante degli strati di civiltà nei quali viene incartata e imballata. Come fa il sole al mattino, gli ormoni entrano in scena e recuperano il tempo perduto, irresistibili e irrispettosi quanto i diavoli del Maestro e Margherita. Distribuiscono sorrisi e sberleffi, ancheggiano, piroettano, fingono di zoppicare e poi improvvisano strabilianti passi di danza, fischiettano motivi sbilenchi. Così nella scia della primavera mi sento allo stesso tempo una donna bambina, adolescente, giovane e attempata, alta, bassa, bionda, mora, rossa, incinta, brasiliana-passo-di-danza, polacca-pelle-di-cristallo, senegalese-mille-treccine-e-volto-intagliato, ingenua e navigata, provocante e naive. Sono un fantasma felice, una scia di profumo, un soffio di magia che racchiude in sé tutta la bellezza annidata nel mistero di essere viva.

caleidomargherite
Zoppicando in paradiso

Quando ero piccola, di ritorno dalle uscite familiari, papà si fermava sotto casa perché mamma e noi tre cuccioli potessimo salire a casa mentre lui andava a lasciare l’auto nel box, a poco più di trecento metri. E regolarmente, qualche minuto prima dell’arrivo, mia sorella ed io (il terzo cucciolo era ancora troppo piccolo), iniziavamo timide trattative per poter andare con lui. Una volta spuntato il nulla osta bisognava decidere chi di noi due, perché soltanto una poteva godere della faticosa, emozionante conquista di restare ancora per una manciata di minuti a circolare nel mondo esterno, per di più da sola con papà. Che attrattiva le variazioni alla routine! Dormire in un altro letto o stare alzati un’ora in più, assaggiare un cibo dei grandi, fare una cosa qualunque in una formazione anomala, che per una famiglia numerosa significa da soli con mamma o con papà. Riesco ancora a ricordare la sensazione nel corpo, come una leggera scossa, come se il respiro si fosse trasferito temporaneamente a fare lo scivolo nel parco giochi della spina dorsale.

Stamattina, al risveglio, mi è tornata in mente una delle volte in cui toccò a me andare fino al box con papà. Si andava giù per una discesa, poi la macchina si fermava e papà scendeva ad aprire la saracinesca grigioverde, come quelle dei negozi. Una volta all’interno io scendevo e andavo ad aspettarlo fuori, in piedi davanti all’entrata, per assistere da vicino all’energico rituale di chiusura, con quel rumore fracassone e prolungato che terminava improvvisamente. Bum. Papà metteva il lucchetto poi mi prendeva per mano e ce ne tornavamo a casa piano piano. I suoi sorrisi calorosi si sentivano da lì sotto senza bisogno di guardarlo. Quel giorno, il fracasso della chiusura terminò con un diversivo, un suono smorzato dalla presenza del mio piede sotto la saracinesca. Sorpresa e dolore, ma papà non si era accorto di niente, e così arretrai il piedino e al secondo tentativo la saracinesca si chiuse come al solito. Bum. Ero piccina ma avevo già chiaro che i grandi non erano in grado di far dissuccedere le cose. Potevo lamentarmi e farmi consolare ma questo avrebbe trasformato la situazione bella in una situazione brutta e avrebbe creato in lui preoccupazione e colpa. Così decisi di fare finta di niente, godermi i suoi sorrisi e sopportare una cosa brutta dentro una cosa bella. Quando si accorse che non solo camminavo lentissimamente ma alternavo zoppichii e strani saltelli, eravamo già a metà della strada. Da grande, non so cosa darei per conoscere i suoi pensieri davanti a quella manifestazione di ingenuità e tenacia. Da grande, so che può succedere, di scegliere che una dose di sofferenza passi inosservata per non alterare una cornice che per il resto ci rende più felici di qualunque consolazione.

cristalli

 

Il Tempo delle Mele
(o il compleanno di Eva nel Paese delle Meraviglie)

La mela annurca, regina delle mele, dalla polpa croccante e succosa, con un sapore aspro e dolce da conquistatrice di palati, la mela annurca è piccola, asimmetrica e decisamente brutta, almeno per i canoni di bellezza delle mele (vedi Biancaneve, che se la strega le avesse allungato un’annurca avrebbe evitato in un colpo solo l’avvelenamento e la notorietà). La mela annurca viene tradizionalmente raccolta quando è ancora verde, poi viene stesa su un letto di paglia e affidata a un lunghissimo sonno di maturazione, durante il quale è frequentemente visitata da mani premurose che le cambiano posizione e le rimboccano le coltri erbose.
Dentro di me, sentimenti, emozioni, esperienze e la mia stessa storia e geografia vivono in ambienti naturali diversi. Gli amori sono boschi, con alberi di ogni età. Su alcuni si può sempre contare per sdraiarcisi sotto e godersi ombra e musica di fruscii, altri sono generosi di rami bassi, facili da scalare, perfetti per un sonno in quota, tra i rami robusti e incrociati e protesi a culla come braccia di giganti gentili. Altri, alti ma non altezzosi, sono irresistibili e impertinenti, e si esprimono con imprevedibili lanci di pigne. Indimenticabili, sia che si riesca a schivarne l’esuberanza, sia che si debba sorridergli da sotto in su massaggiandosi la testa.
La solitudine nella sua essenza suprema, scevra di noia e indecisione, è ambiente marino per eccellenza, un vuoto cedevole in cui scivolare, un abbraccio di silenzio dove il respiro si dilata e comincia a raccontare segreti.
La comprensione invece è una mela annurca, che cresce e fatica a credersi sferica, e si stacca presto dai rami del pensiero che l’ha prodotta, per maturare lentamente in un placido stagno di lacrime ancora non piante. Di tanto in tanto una leggera brezza di pensieri nuovi increspa la superficie dello stagno e la comprensione a venire, dondolata nella sua culla liquida, mostra una faccia diversa. Il processo si compie all’improvviso, come un parto: le lacrime escono copiose e lasciano l’annurca-comprensione a spandere un rosso più brillante della fiamma e un calore languido e denso, pronta per essere finalmente gustata. Intanto con le lacrime scivolano via prima i più antichi ‘perché’, i ‘non capisco’, i ‘c’è qualcosa che non va’, e poi, ultimi, i più freschi rammarichi, pentimenti e rimorsi.

Giovedì, come si dice con una curiosa espressione a base di tempo, ho fatto gli anni. E insieme agli anni è maturata una preziosa comprensione. Esaurite le lacrime, sono riuscita finalmente a scrivere, sgranocchiando al contempo la mia bellissima mela.

Tempo II: il tempo del cuore
[un vero post-fiume: sarei tentata di istituire un premio per chi resiste
ma preferisco ringraziare in anticipo chi avrà la gentilezza e la pazienza di arrivare alla fine]

stewardess Per ogni evenienza,
le bombole di ossigeno
sono alla vostra destra.

Da bambini, il tempo è una farfalla. Si ferma, allora lo si può ammirare nella sua magnificenza fatta di nulla, poi riparte d’improvviso e in un respiro si distoglie lo sguardo e ci si dimentica della sua esistenza. Le date, gli orari, i calendari sono entità incomprensibili e poco interessanti che regolano la vita degli adulti. Mi fa una tenerezza infinita quando i bambini, di fronte ai riferimenti temporali nei discorsi degli adulti, fanno domande come “mi fai vedere quanti sono venti minuti?”, “quanto manca al due settembre?”, con ciò chiedendo una visualizzazione concreta nello spazio, una misura in centimetri che possa avere un senso almeno per gli occhi, un oggetto da portarsi in tasca come promemoria. Di solito ci si inventa qualcosa ma è quasi sempre un infelice tentativo di rendere assoluto qualcosa che è del tutto relativo. Del resto nella nostra cultura la relatività non è un valore e nei cuccioli si esaurisce, crescendo, a colpi di educazione. Però, però in altre culture le cose stanno diversamente, insomma, in un modo un po’ più simile a quello che osserviamo nei nostri bambini. E non c’è bisogno di ampliare gli orizzonti antropologici ad altri continenti. Basta forse trovare sopravvivenze di cultura contadina nel nostro paese per incontrare vite regolate sui cicli della natura e sugli eventi che fanno di un gruppo di esseri umani una comunità. Mi crea una certa vertigine sapere che esistono persone che non sanno dire la propria data di nascita, e non per ignoranza, ma semplicemente perché non è un’informazione così essenziale (non per me che per uscire di casa non solo mi vesto, ma intasco patente e carta d’identità). Ma ci pensate? Esco di casa e la collocazione temporale della mia esistenza è affidata a una rete, a una serie di nodi dove l’assoluto non arriva mai. Al vigile mi basta saper dire, all’occorrenza, io sono nata prima del roscio e dopo quello alto. Ah, ma io e quel tipo simpatico che zoppica un po’ mi sa che siamo comparsi più o meno insieme perché non me lo ricordo né prima né dopo di me. (Qui il roscio dice che forse avrebbe da ridire a prendersi le mie multe per divieto di sosta ma lasciamo stare, ha il dente avvelenato, lavora in centro).
I nostri riferimenti, invece, sono Assoluti, assoluti al punto che nei momenti di debolezza ci ritroviamo a calcolare la somma delle cifre che compongono la nostra data di nascita per elemosinare un’anteprima sul nostro futuro, salvo dichiarare che sono tutte cazzate, nel caso in cui la somma coincida con quella di qualche essere sfigato (allora è meglio l’oroscopo).
Questi corridoi di consapevolezza che si aprono nel labirinto delle convenzioni, ormai lo avrete capito dai post precedenti, a me fanno l’effetto di un tappo di champagne, un bonus di vita inaspettato, una risata che lacera il velo della tensione esistenziale. E riabilitano il Cuore, termine da intendersi qui nella sua accezione più selvaggia di sabotatore dei sofisticati meccanismi della mente. Nel Cuore ogni cosa è intessuta con ogni altra, ragion per cui la sua più pregiata forma di espressione è il balbettamento infantile, e non certo l’infallibile rasoio della mente razionale che divide, cataloga, ordina, archivia e prima o poi vuole finire e andarsene a casa.
Nonostante le staffilate dell’educazione, il cuore di ognuno di noi se la ride delle cicatrici e a bassa voce recita il suo irriverente rosario di balbettanti meraviglie senza senso. Come ben sanno i poeti, gli addetti alla rivincita.

~~~~~~*~~~~~~

“Dove andiamo papi?”, Lorenzo guardava attento la nuca del papà alla guida, dondolando i piedi dal seggiolino.
“Andiamo dai nonni, amore”, fu la risposta in arrivo insieme a un sorriso dallo specchietto retrovisore. Il sorriso passò inosservato ma non le parole: ogni volta che il papà lo chiamava amore Lorenzo si sentiva avvolto in un’ondata di calore. Gli amore della mamma non erano meno piacevoli ma erano la regola, mentre dal papà erano un segnale speciale di papà-due. Lorenzo aveva una sua teoria sugli umori del papà, anche se non aveva un’idea precisa di che cosa volessero dire… Certe volte, chiamandolo vicino a sé, il papà lo faceva sentire già grande. Questo era il papà-uno, che non è che si capiva proprio bene, ma somigliava a un premio. Altre volte invece, soprattutto quando giocavano insieme e il papà lo prendeva in braccio, Lorenzo si sentiva come se fossero tutti e due bambini. Questo era il papà-due, che non c’era bisogno di capirlo, che faceva emozionare e somigliava al profumo della torta prima della festa.

Il calore in cui si sentì avvolto in quel momento profumava di crostata ai mirtilli.

“Papi, adesso siamo come, come uguali eh? La nonna…la nonna…la nonna secondo me ha fatto la crostata!”

“ Non lo so, può darsi. Se vuoi la chiamiamo e glielo chiediamo, ma in una mezz’ora siamo arrivati. Ti sei stancato?”

“No no, dicevo così”. Il profumo era svanito.

Lorenzo si mise a guardare fuori del finestrino: tutto passava veloce che non si faceva in tempo a vederlo bene ma creava una scia di colori mescolati che sfilava al margine della strada. Incuriosito, strizzò gli occhi e cominciò a scomporre la scia, provando a riconoscere ogni cosa, chiamandola per nome in un sussurro, come se alberi, cespugli, erba, rami secchi, sassi, terra, stessero giocando a nascondino con lui. Papà guidava tranquillo ma era una strada che conosceva bene e sembrava quasi che non stesse guidando, ma stesse pensando qualcosa davanti a sé. In quei momenti non era né papà-uno né papà-due, era il papà-sconosciuto, che sembrava che non ci fosse anche se c’era.

La strada si fece più stretta e sinuosa, prima di inoltrarsi in un bosco. A destra e a sinistra non c’erano che alberi, alberi e alberi; in certi punti i rami si univano sopra la strada e dopo le curve a Lorenzo pareva che il passaggio si fosse aperto giusto un attimo prima per lasciarli passare. -Come il videogame delle fate- pensò aprendo un poco di più gli occhi. Dietro uno di quei passaggi, la magia arrivò davvero. Dal folto del bosco strisce di luce si allungavano verso di loro e creavano sulla strada bianca un balletto di minuscoli frammenti, brillanti come le scintille di una bacchetta magica. Lorenzo non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo mai visto: “Le spade di luce, papà, hai visto, papà, le spa…le spade di luce, fermiamoci!”

Nel silenzio che seguì il suono delle sue parole, Lorenzo sentì di nuovo il papà-sconosciuto. Possibile che lui non le veda? Si chiese sconcertato. La macchina era satura di una specie di paura, come quando è meglio stare zitti. Ma le spade di luce erano troppo belle e Lorenzo decise di parlare in quel modo che conosceva, lentamente, sforzandosi di non balbettare per l’emozione: “Papà, perché qui è così? perché ci sono quelle strisce?”

La risposta arrivò quasi subito, insieme a un senso di sollievo. “Il sole è basso e quelli che vedi sono i raggi che passano attraverso le foglie degli alberi e illuminano la polvere che si alza dalla strada. È un fenomeno con un nome difficile che neanche il papà se lo ricorda…”

La voce del papà non tradiva nessuna emozione per le spade di luce ma almeno la domanda lo aveva trasformato da papà-sconosciuto a papà-uno. E la paura se n’era andata.

Il resto del viaggio passò in un lampo. Quando la macchina si fermò sul piazzale i nonni uscirono a salutarli e li fecero entrare in casa senza smettere di parlare, di gesticolare e di chiedere come era andato il viaggio e se erano stanchi. Lorenzo scappò subito in cucina a controllare se c’era la crostata di mirtilli mentre il papà, entrando con le borse, diceva ai nonni: “sì sì, sta bene, non si incanta più così spesso come prima ma preparatevi, è nel periodo dei perché!”

~~~~~~*~~~~~~

Non essendo che uomini

Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi
Intimoriti, pronunciavamo sillabe sommesse
Per paura di svegliare le cornacchie

Per paura di entrare

senza annunciarci in un mondo di ali e stridi.

Se fossimo stati bambini ci saremmo arrampicati

senza spezzare un rametto, a sorprendere le cornacchie nel sonno
e dopo l’agile salita
avremmo cacciato la testa oltre i rami più alti
a contemplare le immancabili stelle.

Dalla confusione, è così che va,
Dallo stupore che l’uomo ben conosce
dal caos sarebbe arrivata la beatitudine.

È lì la grazia, ci diciamo
Bambini incantati a guardare le stelle
È quello lo scopo e la conclusione.

Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi.

[Dylan Thomas 1932]

Distanza?

Kudra non c’è, è partita per un breve viaggio, una breve esplorazione per nutrire i suoi occhi e il suo coraggio di tigre (il suo coraggio e i suoi occhi di tigre?). Tornerà sabato sera. Ah già, e allora chi sono io? Sono Alobar, colui che beneficia della sua indescrivibile presenza.

partenzaÈ partita poco fa sotto la pioggia e sento già la sua mancanza. Mi piace sentirne dolcemente la mancanza… È come una sensazione di languidezza nel corpo con un lieve sorriso sulle labbra. Non c’è niente da fare, stando tanto vicini mi capita a volte di dare per scontata la sua presenza. Che guaio. Non so, è come se lì vicino in certi momenti non ci fosse più lei ma una indistinta sommatoria di tutte le donne amate nella mia vita, dalla mamma in poi. In quei momenti potrei chiamarla con uno qualsiasi dei loro nomi, se non fosse che il linguaggio amoroso mi viene in aiuto con i suoi nomignoli universali… Poi improvvisamente mi risveglio e la vedo, la sento realmente, la sento nel corpo, e ringrazio il cielo per aver messo una tale meraviglia nella mia vita.

Beh, non so perché vi racconto tutto questo. Forse perché il piacere di apprezzare la sua presenza quando manca fisicamente mi ricorda un po’ la bellezza di apprezzare la vostra, con le vostre parole scritte, i vostri pensieri, voi che fisicamente non siete qui. Ho la sensazione che la distanza mi permette di sentire meglio di una coinvolgente vicinanza, in cui entrino in gioco tutte le mie emozioni.

Con amore,

Alobar

P.S.: ah, domani pomeriggio parto anch’io. Se non vi leggo prima, appuntamento al suo prossimo viaggio!;-)

Del tempo che non c’è

Sento qualcosa di perverso nella cronica mancanza di tempo che tutti lamentiamo. È in corso un’epidemia sotterranea di fretta e inquietudine che sta portando all’estinzione lo sguardo scanzonato, l’attività inutile, l’incantamento, il saltello in strada, i cambiamenti di programma…
Insomma, è un po’ che il tempo stringe.
Dapprincipio pensavo si trattasse di un malessere personale dovuto al passaggio dei quarant’anni, al senso di inadeguatezza che mi accompagna, alla netta sensazione di provenire da un altro pianeta senza aver pagato il biglietto.
Poi ho spostato l’attenzione al di fuori di me e ho visto chiaramente che, beh, non sono la sola. Il tempo è l’argomento principale dei discorsi della strada, ansiosi o sospirosi che siano, è tra i soggetti dei quali più si lamenta l’assenza o la penuria (secondo solo ai soldi, e mi sa che tra le due cose c’è un qualche rapporto che varrebbe la pena di esplorare, se solo avessi un po’ più di tempo a disposizione…).
will
Come si chiama questa malattia che porta a vivere in differita?
Deve esserci in giro un mostro che divora il tempo di tutti, con ciò divorando le emozioni,lo stupore, lo spazio attorno ai sentimenti, il seme della novità, l’allegro ripensamento, il caso, la sorpresa, la crescita, persino il dubbio, l’essenza stessa della vita. E se il Cronofago esiste deve per forza avere un palo che attira l’attenzione su di sé e lo lascia agire indisturbato. Forse i pali sono più di uno. Uno lo immagino grassottello e ammiccante, si fa chiamare Temporeale, e la sua tattica consiste nello strillo che ammalia il passante e promette di mostrargli che cosa sta avvenendo altrove in-quel-preciso-momento. L’ignara vittima cade nella trappola, restia a perdere una così ghiotta occasione. E mentre Temporeale gli sfila lo spazio da sotto i piedi come un tappeto, il Cronofago si fa una scorpacciata del suo tempo. Quando il malcapitato si risveglia dalla prolungata assenza gli resta solo la fastidiosa sensazione di essere in ritardo su qualcosa e si allontana chiedendosi al contempo come può liberarsi di qualche impegno e dove può trovare al più presto qualcuno a cui riferire l’evento di cui è stato testimone, prima che diventi insignificante passato.
Un altro palo, questo me lo immagino smilzo e insinuante, si chiama Reperibilità, ed è specializzato nel creare l’illusione che spazio e tempo siano separabili: per incontrarsi non c’è più bisogno del metodo antiquato dell’essere nello stesso luogo nello stesso momento, siamo liberi di andare dove vogliamo, ad esempio a pattinare sui grattacieli, e i nostri cari potranno sempre raggiungerci e chiederci a che ora buttare la pasta. Nello stesso esatto momento in cui volteggiamo estatici possiamo agganciarci al tempo di quella poveretta che riscalda il sugo pronto, perché a prepararlo ci vuole troppo, e contemporaneamente tiene d’occhio la fiction in onda all’ora di pranzo, immedesimandosi con un quarto di se stessa, perché oh, il resto è occupato.

Che buffo…. Mi viene in mente quando, fresca di indipendenza, mi sono chiesta se acquistare una lavatrice. Fatti due conti, ho visto che mi bastava lavorare qualche ora in più e ce l’avrei fatta senza problemi. Ma si dà il caso che il lavoro in questione consisteva nel fare a casa di altri quello che avrei potuto evitare a casa mia, cioè lavare e stirare a pagamento per poter pagare una macchina che lavasse le mie cose. Che fortuna! Se avessi fatto la postina non mi sarei mai resa conto della trappola e non avrei vissuto quel momento di esilarante consapevolezza. E furono così lavaggi allegri e canterini, che poi ci avanzava pure uno scampolo di Tempo per una passeggiata al mare.

L’argomento mi ronza nella testa già da un po’ e probabilmente inaugurerò il post a puntate… Ma ora vi lascio, che il vostro tempo è prezioso.

Si accettano deliri?…

Si accettano deliri? (giuro, non lo faccio più, è tutta colpa di C.A. che mi ha ispirato in tal senso e poi ieri ero tanto stanca ma mica sono riuscita a dormire e ho fatto sogni tutti strani e nonostante la finta sveglia mi sono svegliata prestissimo…) <—-questo era il titolo

Mio caro amore [ti comprai e ti pagai molto ma ti voglio bene],
è tanto che non ti fai sentire, e sentire se ne è risentita, così sdoppiandosi a causa tua (che impressione!).
Sarà per questo che hai cambiato causa, spiazzando il tuo avvocato e svicolando il tuo commercialista. Del resto se ora commerci a lista e non più a singoli pezzi capisco che molte altre cose sono mutate e dunque non mi stupisco di non sentire più nulla (per quanto non so più se si tratta del loro mutismo o della mia sordità).
Mi hai scritto, lo so, ma si è cancellato tutto alla prima doccia e così ti supplico, riscrivimi, ma stavolta con l’inchiostro più antipatico che ci sia. E che ci sia, l’inchiostro, compresi i frati che lo trascorrono con passo leggero, rubando gli strumenti all’architetto, che non potrà più suonare sul terrazzo condominiale. Altrimenti (che siano sfuggenti o con la fossetta), non rispondo più di me stessa (e visto che me stessa lascia sempre la segreteria, dubito che ci risentiremo, così andremo d’accordo).

Sinceramente tua (riesco a dire bugie senza mentire e perciò acquistandomi mi pagasti profumatamente, tanto che ora, mento sapendo di mentine).

Kudra & Chianti

*Buonanotte*

Sono stanca, stanca come se avessi trascritto la treccani con una vecchia olivetti lettera 32, anzi stanca come la “a” di quella tastiera. Niente di straordinario né drammatico, un lavorone tra capo e collo domenica pomeriggio e un lunedì da trottola. Il tutto per dire che non ce la faccio a scrivere cose più connesse di così, eppure sentivo il desiderio di lasciare una traccia. Un saluto appeso a un sorriso. Stare in giro e lontana dal computer per tutto il giorno mi ha fatto vivere un piacevole effetto collaterale del blog: ogni pensiero che per qualche motivo mi colpiva pensavo di raccontarvelo, come succede quando si è innamorati, che si aspetta di arrivare a casa o all’appuntamento per aprire il vaso delle emozioni e versarne le meraviglie senza conservare una sola goccia. Insomma, ecco qua, anche quando sono in giro vi porto nelle tasche e il mio cuore fa blog blog. Ora filo a letto, a passo di valzer (io lo sento, e voi?)

SMalarm
Questa è la mia sveglia…non so se mi spiego.

Lode all’imperfetto
In questi giorni ho postato e spostato, impostato e depostato (?) quella che doveva essere una nuova forma di FILODIFFUSIONE, vale a dire un’immagine-di-parole-di-canzone-cucite che nelle mie intenzioni doveva pure cantare. Forse ho preteso troppo, soprattutto da splinder che non mi capisce il codice. Quando all’ennesimo orgoglioso esasperato tentativo mi ha caricato nella pagina il meteo della CNN ho capito che aveva vinto lui (ad ogni modo, se avete in programma una gita nel Vermont copritevi bene).

Comunque devo dire che è stato un momento altamente educativo, che mi ha dato l’esatta misura del mio perfezionismo, mostrandomi al contempo la strada alternativa (e oh quanto allettante!) dell’imperfezionismo, tanto caro ai bambini.

Allora (tutto d’un fiato)

facciamo che io ero riuscita ad averla vinta su Spleender e che l’immagine era linkata a uno javascript che quando cliccavate su filodiffusione faceva partire la canzone goccia di cristina donà che io avevo cucito per voi le parole, e il filo e i colori e le note vi scendevano nella stanza, tic tac, goccia a goccia, come un distillato del miele di castagno del mio umore…

filodiffusione

Mi serve uno shampoo. Vado in un supermercato e resto davanti allo scaffale intontita e allibita per un tempo interminabile.
Per me che di fronte alle decisioni sembro eva sotto l’albero della conoscenza, basterebbe già l’abbondanza, la pluralità di marche e forme e dimensioni e colori e prezzi da confrontare. Eppure quello che mi paralizza è che non esiste nulla che soddisfi realmente il mio bisogno iniziale, basilare: lavarmi i capelli e basta. Con ognuno di questi prodotti i capelli non te li puoi solo lavare, devi orientarli verso un cambiamento, devi ammettere che i tuoi capelli siano vittima di un disagio: troppo secchi o troppo grassi, con la forfora, sfibrati, trattati (?) o con le doppie punte. Oppure compensare con la qualità dello shampoo le tue abitudini: li lavi troppo di frequente? (quante volte, figliola?) ti fai la tinta? la permanente? i colpi di sole? hai tentato inutilmente di farti i dreadlock fallendo miseramente alla terza fase? ti fai le treccine? non vogliamo sapere perché ma usi parrucche?
Il più inquietante di tutti, alla fine, è lo shampoo “per capelli normali”, che a questo punto non sai più a cosa corrisponde. Se esistesse solo quello non ci sarebbe bisogno di chiamarlo così… Mi sento come di fronte a un confessore particolarmente aggressivo e insinuante: sei sicura di essere normale? Non hai comportamenti a rischio? Non stai forse trascurando qualche cosuccia? Non vuoi cogliere l’occasione per migliorarti? Non vuoi farti un regalo donando ai tuoi capelli morbidezza,splendore e se-ri-ci-tà? Non vorresti ristrutturarli? (mioddio, se non ci penso in tempo, prima o poi dovrò chiamare una ditta.)
Ma sarò mica depressa?
Perché non mi sembra indispensabile preservare il film idrolipidico e il ph naturale dei miei capelli?
Perché non voglio combattere l’impoverimento strutturale che è lì in agguato?
Perché non voglio ravvivarne il colore, ridare loro corpo e vigore?
Che cosa mi è successo?
Dov’ero per non accorgermi di tutto questo colpevole decadimento?

Provo con l’erboristeria ma è la stessa musica (anche se l’ambiente ha un profumo decisamente più accattivante): anche lì devi decidere come ti vuoi migliorare e se non hai niente da dichiarare ci pensano loro, ti fanno la diagnosi, ti impacchettano lo shampoo ideale insieme a un paio di campioncini di crema ideale per la tua pelle (secca, sì, secca, ma non lo vedi?) e ti mandano a casa con un consolante “vedrai che ti ci troverai bene e poi è un prodotto sicuro”(?!?).

Ora, comunque io sia, lasciatemi proclamare un desiderio profondo e gorgogliante di allegria:

io non voglio migliorare,
voglio solo essere,
finché esisto.
Il che implica
-o meraviglia!-
che cambierò continuamente,
senza volerlo,
come un albero
o un fungo.

hair

Post post scriptum: qualcuno conosce uno shampoo per capelli scannerizzati?

 SMfleur2 Sono belle le cose, belli i contorni
degli occhi
e i contorni del rosso
gli accenti sulle a, lacrime di pagliacci
le ciglia delle dive
le bolle di sapone,
il cerchio del mondo è bello
l’ossigeno delle stelle
e la poesia dei ritorni,
di emigranti e isole,
cercando l’invisibile: l’appartenenza
è bello il fuoco
e il sonno
e il buio petulante gola dei fantasmi
e il brodo primordiale padre nostro
che cola in questi nomi.
[PMG]

  BlogOziand…

 

BlogOziando
Ah, che magnifico luogo dove stare senza uno scopo,

come sdraiarsi sotto un albero

o ancor meglio su una spiaggia,

magari di notte,

che puoi sentire

CON TUTTO IL CORPO

i tuffi delle stelle

nel mare

in lontananza.

È in questi momenti

fuori dal tempo

che ti vengono in mente

gli interrogativi più inquietanti, tipo:

perché così tanti elettrauto e gommisti hanno un cane in officina?
E quasi tutti un simil-pastore tedesco dal pelo curiosamente annerito?

L'immagine dei due t…

L’immagine dei due tipi sulla bicicletta geneticamente modificata l’ho presa dalla locandina di uno spettacolo del Cirque Invisible di Victoria Chaplin e Jean Baptiste Thierrée. Se potete andateli a vedere e trascinateci a tutti i costi tutti coloro che amate! A quelli che non amate, se proprio siete in vena di cattiverie, dite di non andare. Ma c’è una certa probabilità che anche loro si trasformino negli esseri più amabili della terra. Fate vobis. Ma ite!

Il primo benvenuto me lo dò da sola perché non si può pretendere.
Benvenuta Kudra (e nel declamarlo trangugio un sorso di vino, metà per brindare e metà per farmi coraggio).
Ecco, ho creato un blog ma non crediate che lo abbia fatto impulsivamente. Dal primo pensierino a oggi sono rimasta intrippata per almeno una settimana nei che-senso-ha e forse-mi-sto-dando-troppa-importanza e aiuto!-che-ci-faccio-lì-tutta-sola e se-poi-non-mi-piace-avrò-il-coraggio-di-andarmene? Poi qualcuno mi ha dato un buon esempio di

LEGGEREZZA

ed eccomi qua. Rompiamo il ghiaccio (e spero solo quello).

Un personaggio di Tennessee Williams dice che tutti viviamo in una casa che sta andando a fuoco, dove non esistono pompieri né vie di fuga, ma solo la finestra del piano di sopra dalla quale guardare fuori mentre il fuoco divampa e distrugge la casa nella quale siamo intrappolati. Beh, a parte il fatto che il tipo doveva aver mangiato pesante e dormito poco e male, l’immagine si presta a interpretazioni diverse. A me fa pensare alla certezza della morte (che in quanto inesorabile potrebbe essere la parte più rilassante della realtà, o vita che dir si voglia). Il corpo è la casa, che sta in piedi fin che può. Mentre la sostanza sta tutta in quella finestra del piano di sopra, dove si tratta di scegliere se appannarci la vista di lacrime preventive oppure mangiarci con gli occhi il panorama. O come meglio si esprime il mio scrittore preferito: quello che Tennessee aveva trascurato di aggiungere era che se guardiamo da quella finestra con un’avida curiosità e uno sguardo appassionato, con uno spirito generoso e la capacità di deliziarci, e il linguaggio con cui sostenere e arricchire le cose che vediamo, allora NON HA IMPORTANZA che la casa stia bruciando attorno a noi. Non conta. Cazzo, che bruci pure!

Ora che ci siamo tolti di mezzo la morte, non resta che affacciarsi alla finestra e fare conoscenza.
Intanto, ecco un’immagine che mi rappresenta egregiamente, anche se non so ancora bene se io sono la tigrrrre oppure la leggiadra divinità multitasking. Almeno qui, sul pianeta Blog, c’è qualche problema se le incorporo entrambe?
moiHo uno strascico di insicurezza. So già che stanotte sognerò il signor Robert Cantieni, colui che ha il copyright della cartolina di cui sopra. (Forse non avrei dovuto scriverlo per esteso, quel nome. Me lo immagino, Robert, che fa i conti di quanto gli manca per prendersi una nuova Porsche mentre un motore di ricerca fa il monitoraggio sul web…). E questo mi offre il destro per parlare dell’orrore e del terrore di essere bombardati aggratis di immagini non richieste per poi scoprire che se vuoi riprodurne una devi pagare o quantomeno chiedere il permesso. Così, con l’eccezione spero felice di Rober Cantieni, voglio utilizzare immagini autoprodotte, passate attraverso uno scanner attonito ma in fondo in fondo curioso di assaporare una dimensione in più. E saranno pezzi del panorama che divoro con gli occhi dalla mia finestra-da-una-casa-in-fiamme, promemoria di orizzonti e spazi sconfinati.
Vi basterà a farvi un’idea e ai prossimi post non ci sarà bisogno di tanti preamboli.

Ora mi ammutolisco per un po’, tremebonda e soddisfatta allo stesso tempo. Ma in segreto farò salti di gioia all’idea di esserci. A volte basta poco. Come diceva il buon vecchio dante: poca favilla gran fiamma seconda! Che in realtà mi ha sempre evocato i risultati di una corsa di cavalli…

Beh, poi se qualcuno volesse condividere gli effetti collaterali della sua prima entrata in scena in un blog-palcoscenico, ne sarei onorata e deliziata.

Alla prossima
K.