Tempo II: il tempo del cuore
[un vero post-fiume: sarei tentata di istituire un premio per chi resiste
ma preferisco ringraziare in anticipo chi avrà la gentilezza e la pazienza di arrivare alla fine]
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Per ogni evenienza,
le bombole di ossigeno
sono alla vostra destra. |
Da bambini, il tempo è una farfalla. Si ferma, allora lo si può ammirare nella sua magnificenza fatta di nulla, poi riparte d’improvviso e in un respiro si distoglie lo sguardo e ci si dimentica della sua esistenza. Le date, gli orari, i calendari sono entità incomprensibili e poco interessanti che regolano la vita degli adulti. Mi fa una tenerezza infinita quando i bambini, di fronte ai riferimenti temporali nei discorsi degli adulti, fanno domande come “mi fai vedere quanti sono venti minuti?”, “quanto manca al due settembre?”, con ciò chiedendo una visualizzazione concreta nello spazio, una misura in centimetri che possa avere un senso almeno per gli occhi, un oggetto da portarsi in tasca come promemoria. Di solito ci si inventa qualcosa ma è quasi sempre un infelice tentativo di rendere assoluto qualcosa che è del tutto relativo. Del resto nella nostra cultura la relatività non è un valore e nei cuccioli si esaurisce, crescendo, a colpi di educazione. Però, però in altre culture le cose stanno diversamente, insomma, in un modo un po’ più simile a quello che osserviamo nei nostri bambini. E non c’è bisogno di ampliare gli orizzonti antropologici ad altri continenti. Basta forse trovare sopravvivenze di cultura contadina nel nostro paese per incontrare vite regolate sui cicli della natura e sugli eventi che fanno di un gruppo di esseri umani una comunità. Mi crea una certa vertigine sapere che esistono persone che non sanno dire la propria data di nascita, e non per ignoranza, ma semplicemente perché non è un’informazione così essenziale (non per me che per uscire di casa non solo mi vesto, ma intasco patente e carta d’identità). Ma ci pensate? Esco di casa e la collocazione temporale della mia esistenza è affidata a una rete, a una serie di nodi dove l’assoluto non arriva mai. Al vigile mi basta saper dire, all’occorrenza, io sono nata prima del roscio e dopo quello alto. Ah, ma io e quel tipo simpatico che zoppica un po’ mi sa che siamo comparsi più o meno insieme perché non me lo ricordo né prima né dopo di me. (Qui il roscio dice che forse avrebbe da ridire a prendersi le mie multe per divieto di sosta ma lasciamo stare, ha il dente avvelenato, lavora in centro).
I nostri riferimenti, invece, sono Assoluti, assoluti al punto che nei momenti di debolezza ci ritroviamo a calcolare la somma delle cifre che compongono la nostra data di nascita per elemosinare un’anteprima sul nostro futuro, salvo dichiarare che sono tutte cazzate, nel caso in cui la somma coincida con quella di qualche essere sfigato (allora è meglio l’oroscopo).
Questi corridoi di consapevolezza che si aprono nel labirinto delle convenzioni, ormai lo avrete capito dai post precedenti, a me fanno l’effetto di un tappo di champagne, un bonus di vita inaspettato, una risata che lacera il velo della tensione esistenziale. E riabilitano il Cuore, termine da intendersi qui nella sua accezione più selvaggia di sabotatore dei sofisticati meccanismi della mente. Nel Cuore ogni cosa è intessuta con ogni altra, ragion per cui la sua più pregiata forma di espressione è il balbettamento infantile, e non certo l’infallibile rasoio della mente razionale che divide, cataloga, ordina, archivia e prima o poi vuole finire e andarsene a casa.
Nonostante le staffilate dell’educazione, il cuore di ognuno di noi se la ride delle cicatrici e a bassa voce recita il suo irriverente rosario di balbettanti meraviglie senza senso. Come ben sanno i poeti, gli addetti alla rivincita.
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“Dove andiamo papi?”, Lorenzo guardava attento la nuca del papà alla guida, dondolando i piedi dal seggiolino.
“Andiamo dai nonni, amore”, fu la risposta in arrivo insieme a un sorriso dallo specchietto retrovisore. Il sorriso passò inosservato ma non le parole: ogni volta che il papà lo chiamava amore Lorenzo si sentiva avvolto in un’ondata di calore. Gli amore della mamma non erano meno piacevoli ma erano la regola, mentre dal papà erano un segnale speciale di papà-due. Lorenzo aveva una sua teoria sugli umori del papà, anche se non aveva un’idea precisa di che cosa volessero dire… Certe volte, chiamandolo vicino a sé, il papà lo faceva sentire già grande. Questo era il papà-uno, che non è che si capiva proprio bene, ma somigliava a un premio. Altre volte invece, soprattutto quando giocavano insieme e il papà lo prendeva in braccio, Lorenzo si sentiva come se fossero tutti e due bambini. Questo era il papà-due, che non c’era bisogno di capirlo, che faceva emozionare e somigliava al profumo della torta prima della festa.
Il calore in cui si sentì avvolto in quel momento profumava di crostata ai mirtilli.
“Papi, adesso siamo come, come uguali eh? La nonna…la nonna…la nonna secondo me ha fatto la crostata!”
“ Non lo so, può darsi. Se vuoi la chiamiamo e glielo chiediamo, ma in una mezz’ora siamo arrivati. Ti sei stancato?”
“No no, dicevo così”. Il profumo era svanito.
Lorenzo si mise a guardare fuori del finestrino: tutto passava veloce che non si faceva in tempo a vederlo bene ma creava una scia di colori mescolati che sfilava al margine della strada. Incuriosito, strizzò gli occhi e cominciò a scomporre la scia, provando a riconoscere ogni cosa, chiamandola per nome in un sussurro, come se alberi, cespugli, erba, rami secchi, sassi, terra, stessero giocando a nascondino con lui. Papà guidava tranquillo ma era una strada che conosceva bene e sembrava quasi che non stesse guidando, ma stesse pensando qualcosa davanti a sé. In quei momenti non era né papà-uno né papà-due, era il papà-sconosciuto, che sembrava che non ci fosse anche se c’era.
La strada si fece più stretta e sinuosa, prima di inoltrarsi in un bosco. A destra e a sinistra non c’erano che alberi, alberi e alberi; in certi punti i rami si univano sopra la strada e dopo le curve a Lorenzo pareva che il passaggio si fosse aperto giusto un attimo prima per lasciarli passare. -Come il videogame delle fate- pensò aprendo un poco di più gli occhi. Dietro uno di quei passaggi, la magia arrivò davvero. Dal folto del bosco strisce di luce si allungavano verso di loro e creavano sulla strada bianca un balletto di minuscoli frammenti, brillanti come le scintille di una bacchetta magica. Lorenzo non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo mai visto: “Le spade di luce, papà, hai visto, papà, le spa…le spade di luce, fermiamoci!”
Nel silenzio che seguì il suono delle sue parole, Lorenzo sentì di nuovo il papà-sconosciuto. Possibile che lui non le veda? Si chiese sconcertato. La macchina era satura di una specie di paura, come quando è meglio stare zitti. Ma le spade di luce erano troppo belle e Lorenzo decise di parlare in quel modo che conosceva, lentamente, sforzandosi di non balbettare per l’emozione: “Papà, perché qui è così? perché ci sono quelle strisce?”
La risposta arrivò quasi subito, insieme a un senso di sollievo. “Il sole è basso e quelli che vedi sono i raggi che passano attraverso le foglie degli alberi e illuminano la polvere che si alza dalla strada. È un fenomeno con un nome difficile che neanche il papà se lo ricorda…”
La voce del papà non tradiva nessuna emozione per le spade di luce ma almeno la domanda lo aveva trasformato da papà-sconosciuto a papà-uno. E la paura se n’era andata.
Il resto del viaggio passò in un lampo. Quando la macchina si fermò sul piazzale i nonni uscirono a salutarli e li fecero entrare in casa senza smettere di parlare, di gesticolare e di chiedere come era andato il viaggio e se erano stanchi. Lorenzo scappò subito in cucina a controllare se c’era la crostata di mirtilli mentre il papà, entrando con le borse, diceva ai nonni: “sì sì, sta bene, non si incanta più così spesso come prima ma preparatevi, è nel periodo dei perché!”
~~~~~~*~~~~~~
Non essendo che uomini
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi
Intimoriti, pronunciavamo sillabe sommesse
Per paura di svegliare le cornacchie
Per paura di entrare
senza annunciarci in un mondo di ali e stridi.
Se fossimo stati bambini ci saremmo arrampicati
senza spezzare un rametto, a sorprendere le cornacchie nel sonno
e dopo l’agile salita
avremmo cacciato la testa oltre i rami più alti
a contemplare le immancabili stelle.
Dalla confusione, è così che va,
Dallo stupore che l’uomo ben conosce
dal caos sarebbe arrivata la beatitudine.
È lì la grazia, ci diciamo
Bambini incantati a guardare le stelle
È quello lo scopo e la conclusione.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi.
[Dylan Thomas 1932]